Luglio 1982 quando Paolo si traduceva solo Pablito
- da Un Cuore Grande Così
il 15/05/2015 @ 11:49
Paolo Rossi, viva la vida... Pablito! (da calcionews24.com) «Mi stupisco che non abbiano ancora fatto un film su Spagna '82. A Hollywood una sceneggiatura del genere se la sognano...» Attendevo questa intervista da più di 30 anni. Da un pazzesco tardo pomeriggio del luglio '82 con le persiane abbassate e i primi colori televisivi (l'era neanderthaliana dell'attuale HD...) che mischiavano tipo tela impressionista il verde dell'erba con i cromatismi azzurri e gialli delle magliette (sudate) in campo. Volevo sapere perché quel calciatore magrolino, smunto e con il pomo d'adamo sporgente ci aveva reso tutti così felici. Sapete, veniva da un periodo difficile e aveva il numero 20 talmente grande che le sue spalle parevano svaporizzarsi. Perché d'accordo la storica tripletta, d'accordo l'impresa imprevista (ma meritatissima) col Brasile di Zico & c., d'accordo le bandiere, il casino ed i mortaretti, ma quella in fondo era solo un'altra partita di calcio. Crescendo, poi, ho cominciato ad intuire (il football come specchio della società, l'emozione dello sport che allontana le amarezze della vita, la rivincita della partita dell'Azteca andata in scena nel 1970 ecc.) ed oggi finalmente ho le idee un po' più chiare mentre Paolo Rossi si materializza davanti a me, in un hotel ad un passo da Milano, per l'intervista concordata con CalcioNews24. Non è cambiato granché da quella lontana estate (il fisico sempre in forma, il capello inevitabilmente più grigio e un modo curioso di socchiudere gli occhi mentre racconta) o forse sono io che sono rimasto troppo a lungo là. All'indimenticabile Mondiale spagnolo del 1982. All'amore ai tempi di Pablito come racconta un bel libro di Luigi Garlando uscito qualche anno fa. Al mito (sì, il mito) del nostro calciatore azzurro più iconico assieme a Meazza, Riva e Zoff. Questi sarebbero i suoi Tempi Supplementari, ma in realtà è pure un bel viaggio tra passato e presente come ben illustra una recente mostra dedicata allo stesso Rossi e ricca di cimeli d'epoca, casacche originali, il Pallone d'Oro '82 e video da pelle d'oca. Ho già scritto troppo, la parola passa subito all'hombre del partido.
Partiamo dalla stretta attualità: la tua mostra monografica sarà un giorno anche itinerante? «Penso proprio di sì. Il progetto è nato per iniziativa del comune di Gaiole in Chianti (dove la mostra 'Pablito' è rimasta aperta dal 5 al 26 aprile scorsi, ndr) ed io mi ci sono buttato con il solito mix di divertimento e scrupolo. Ora a Milano c'è questa bella opportunità dell'Expo, chi lo sa che non si riesca ad organizzare qualcosa anche in Lombardia. O altrove.» Lo scorso marzo, invece, hai inaugurato la 'Paolo Rossi Accademy' (alias la tua scuola calcio) in quel di Perugia: un messaggio subliminale rivolto al football italiano? «No, quella è stata semplicemente una scelta passionale senza alcun collegamento con le vicissitudini attuali del nostro calcio. In pratica ho creato questa Accademy perugina per stare in mezzo ai ragazzi il più a lungo possibile, seguendo fino in fondo la mia vocazione di 'giocatore per sempre'. Vocazione che, come si è visto, non ha mai coinciso con le ambizioni di un allenatore o di un dirigente.» Piccoli "Pabliti" crescono? «Speriamo! (sorride) Speriamolo sul serio. In Nazionale, d'altronde, ci mancano i grossi ricambi generazionali e l'unico calciatore su cui io puntavo tanto, Pepito Rossi (un vero esempio comportamentale, il suo), al momento è ancora in via di guarigione. Il fatto è che i giovani italiani di 18/19 anni, se bravi e motivati, devono assolutamente trovare spazio nelle nostre squadre di club; altrimenti tutto il movimento cresce piano e poco. Soprattutto a livello di maturazione.» Quindi stai dalla parte di Sacchi? Sensazionalismi a parte... «Sto totalmente con Arrigo quando dice che ci sono troppi stranieri a tarpare le ali ai nostri U21, ma anche U17 se è per questo... Mi rendo conto che le società lo facciano per convenienza economica, però è giusto dare una chance a chi è nato nella Penisola. Se no bye bye al Rossi di Vicenza, giusto per citarne uno...»
I ragazzini della tua Accademy sanno chi è esattamente quel signore con la chioma brizzolata chiamato Paolo Rossi? «Diciamo che mi guardano con curiosità ed ammirazione. Sai, viviamo in un'epoca tecnologica e, grazie a YouTube, ora si può recuperare ogni cosa. Avercelo avuto Internet ai miei tempi quando i gol di Puskas e Di Stefano potevi solo immaginarteli con la fantasia! (ride) Non finirò mai di ringraziare mio padre Vittorio per avermi portato allo stadio di Firenze, da piccolo, a vedere le giocate incredibili di Hamrin...» Cos'ha avuto di tanto mitologico il Mondiale dell'82 rispetto a tutti gli altri? A parte il fatto, ovviamente, che l'abbiamo vinto noi... «È stato il primo Mundial realmente mediatico e televisto ovunque. Si giocavano gare tipo Belgio-Argentina, Brasile-URSS o Italia-Camerun e subito le immagini venivano catapultate in tutto il mondo ad una velocità pazzesca. Io me ne sono reso conto sulla mia pelle quando, tempo dopo, andai a visitare un piccolo villaggio nell'Amazzonia peruviana. C'erano quattro baracche in totale con un'antenna traballante sul tetto. E da una di queste è uscita una persona. Mi osserva per qualche istante e poi mi fa: 'Bienvenido, Pablito!'. La mia immagine pubblica era giunta fino lì...» Non c'era il rischio di perdersi, nel cuore degli anni '80, di fronte a tutta questa fama così sconvolgente? «Difatti un po' ne ho patito. Attorno al 1983 - dopo aver vinto Mondiale, titolo di capocannoniere, Pallone d'Oro e Scarpa d'Oro - mi sono detto: 'E adesso che combino?'. Inutile fingere: mi erano venuti a mancare gli stimoli nonostante giocassi e segnassi in una squadra fantastica. Una Juventus piena zeppa di amici che, in quel periodo, avrebbe vinto lo scudetto e tutte le competizioni europee. Quelle furono ancora delle buone annate, ma poi...» Dopo vennero le stagioni chiaroscurali col Milan e il Verona... «E lì ho capito che un'epoca irripetibile stava davvero finendo. Non tanto per la stanchezza fisica o gli infortunii alle ginocchia (tanti, troppi), ma perché avevo finito la benzina dell'entusiasmo. Non ne avevo più, ero saturo.» Recuperiamolo subito quell'entusiasmo. E ributtiamoci in quel Mondiale spagnolo ad alto tasso di emotività. «Vuoi sapere la verità? Mi stupisco che a nessuno sia mai venuto in mente di farci un film su Spagna '82. Quella fu una sceneggiatura assolutamente perfetta e, se chiamassi ora dieci autori hollywoodiani, per me non riuscirebbero a scrivere di meglio... Era già tutto racchiuso in quell'estate: il ritiro di Alassio, le speranze disattese di Vigo, le polemiche disturbanti, il silenzio-stampa deciso in cinque minuti dopo aver preso il caffè... E poi la coerenza di Enzo Bearzot, lo snodo cruciale di Barcellona, Italia-Argentina, Italia-Brasile, la mia resurrezione imprevista, il trionfo di Madrid, il pranzo del giorno dopo al Quirinale con la Coppa FIFA in mezzo alla tavola. L'Italia che usciva finalmente da quel buco che furono gli anni '70...» Gli anni '70 finirono con due stagioni di ritardo. Il 5 luglio 1982 in un piccolo stadio catalano... «Dopo la partita del Sarrià contro il Brasile mi sono sentito realmente invincibile e ho cominciato a dormire meglio. Il giorno dopo mi svegliavo ed era ancora lì: quel senso di grandezza, mio e di tutta la squadra. Ma ho penato tantissimo per arrivarci: giocare una partita vera, dopo 2 anni di stop, fu un dramma. Ok, la testa c'era ma lo scatto non veniva di conseguenza. Intuivo il gol, ma mi mancava quel click tra cervello e muscoli. Però Bearzot - che era tutto fuorché un folle - mi infondeva sicurezza col suo coraggio mostruoso. Lui lo sapeva che, prima o poi, sarebbe successo. E intanto tutta Italia lo voleva linciare...» E poi c'era l'arma segreta... «L'arma segreta? (sorride)» Sì, la musicassetta di 'Sotto la Pioggia' di Antonello Venditti. «Giusto! (Pablito comincia a cantare ed è pure bello intonato, ndr) I carri armati a fari spenti nella notte/sotto la pioggia... Guarda, quel nastro Cabrini ed io l'abbiamo letteralmente consumato, l'avremo sentito centinaia di volte in albergo prima e dopo le partite decisive. Eh sì, devo ringraziare Venditti per aver involontariamente scritto la canzone-simbolo di quel Mondiale.» Dove si trova la tripletta al Brasile, Pablito? Te la sogni ancora qualche notte? «Sta là, confinata in quell'afoso 5 luglio 1982. A cominciare dal primo gol, quello segnato di testa su cross al bacio di Cabrini, che ho sempre considerato la rete più importante di tutta la mia carriera.
Il secondo (l'anticipo su Junior con relativo siluro di destro a far vibrare la rete, ndr) lo segnai in pura trance agonistica mentre il terzo, quando eravamo ancora sul 2-2, l'ho semplicemente 'visto'...» Scusa? «Sì, l'ho visto: quel gol mi si è materializzato davanti tipo preveggenza pochi minuti prima di buttarlo dentro. E poi arrivò pure il 4-2 regolarissimo di Giancarlo Antognoni solo che l'arbitro s'inventò qualcosa e l'annullò. Giusto per farci soffrire fino al 90'.»
Meno male che ti sei sbloccato dalla Seleção in poi. Così è stato tutto molto più epico, no? «Quello in effetti fu il vero problema di Argentina '78, il mondiale precedente ed un rimpianto che non mi sono mai levato dalla testa. Partimmo a mille: io segnai con Francia, Ungheria, Austria e feci faville sia con i padroni di casa (ricordate il triangolo Bettega-Rossi-Bettega? ndr) che con i tedeschi. Difatti arrivammo alla sfida decisiva con l'Olanda già fin troppo appagati tant'è che quella partita mi è sempre rimasta lì... (sospira) Nel primo tempo avremmo potuto condurre per 3-0 solo che non ci abbiamo creduto abbastanza. Fu un torneo vinto per metà e sicuramente non nei momenti decisivi.» La tua vicenda "mundial" si chiuderà poi, 8 anni più tardi, a Messico '86. Una manifestazione malinconica, brutta e soprattutto non giocata... «Ero andato là per fare gruppo e basta, un po' come accadde a Facchetti nel '78. Bearzot me lo disse ancor prima di salire sull'aereo: 'Ti porto, ma non giocherai un solo minuto. Lo faccio per te: devi lasciare questo palcoscenico con una bella immagine ed evitare a tutti i costi le brutte figure'. In Messico era davvero finito un ciclo azzurro per molti di noi (Conti, Tardelli, Scirea, Collovati, io ecc.) e l'atmosfera era parecchio ovattata. Sai, quando vinci una coppa del mondo, il bivio è sempre quello: o stravolgi tutto oppure è molto difficile, se non impossibile, ripetersi.» Ci "parli" ogni tanto col Vecio? «Ci penso di frequente e mi mancano sia la sua umanità che le sue lezioni di vita. Bearzot era un jazzofilo d'altri tempi, con i suoi valori forti. Uno che non ci pensava un attimo ad allontanare i 'disturbatori' dalla sua Nazionale. Però, una volta dentro, diventavi automaticamente suo 'figlio' e grazie alla sua testardaggine positiva il Vecio ti avrebbe portato ovunque. Anche a vincere una coppa del mondo...» Cesare Prandelli è stato molto "bearzottiano" per un certo periodo di tempo... «Sì, ma prima di Brasile 2014 ha perso la rotta del suo lavoro dando troppo ascolto alla stampa che voleva questo o quello... Mi spiace parlare così perché Cesare è un amico vero, ma il gruppo resta sacro in questi casi. Non si può andare ad un Mondiale con le idee confuse. Così come non è consigliabile cambiare la formazione ad ogni accenno di polemica mediatica.» È quasi un'ora che stiamo dialogando. Mi sa che si è fatto tardi. «Lasciami solo ricordare tutte quelle persone che hanno condiviso un sogno assieme a me nel 1982 ed ora non ci sono più: Enzo Bearzot, ovviamente, ma anche il povero Gai (Scirea, ndr), Artemio Franchi, il professor Leonardo Vecchiet, il nostro segretario/addetto stampa Guido Vantaggiato, il massaggiatore Sandro 'Sandrone' Selvi. Li porto tutti nel mio cuore.» Più un certo Sandro Pertini... «Pertini, certo! Un vero esempio di italiano per bene. Uno che non ha mai portato la Politica in Spagna e che non ha mai voluto toccare la Coppa FIFA nonostante i fotografi lo implorassero per un solo, singolo scatto. 'No, la coppa è degli atleti - diceva con quel suo tono perentorio - e qua io sono solo il primo dei tifosi.'. Ma dove lo trovi oggi un altro così?»
Ma è vero che se ne intendeva di calcio? «Scherzi? Prima della finalissima di Madrid contro la Germania Ovest venne da me a dirmi: 'Rossi, quei tedeschi sono duri come il ferro... Li deve saltare! Ha capito? Li salti, mi raccomando!'. E intanto mi dava dei colpetti sul petto. Una spontaneità sconvolgente. Io lo guardavo e pensavo: 'Questo mi parla come il mio babbo al bar, ma in realtà è il Presidente della Repubblica'...»
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che "per capire come vanno le cose del mondo bisogna morire almeno una volta nella vita ed è meglio che succeda da giovani", dice Romolo Valli, il padre di Giorgio (un giovanissimo Lino Capolicchio) in una scena di Il giardino dei Finzi Contini, il film tratto dal romanzo di Giorgio Bassani. La storia della famiglia altoborghese di origine ebraica chiusa nel suo mondo privilegiato, nel parco della villa di Ferrara, quasi inconsapevole dell'orrore che l'avrebbe travolta e poi vittima delle leggi razziali e deportata a Dachau nel 1943 è sempre attuale. La versione restaurata del film, Oscar nel 1972 come miglior film straniero, sarà presentata a Roma all'Auditorium Parco della musica. Una proiezione speciale alla quale parteciperà la famiglia De Sica con i figli del grande regista, Christian e Emi, organizzata e promossa da Istituto Luce Cinecittà. Il restauro invece è stato promosso da Antony Morato, brand internazionale della moda. "Sono sicuro che mi commuoverò - dice Christian De Sica - perché è un film a cui sono legatissimo e che mi ricorda la mia famiglia, sono stato sul set a Roma e a Ferrara quando papà l'ha girato. E' stato un lavoro importante per lui, il film lo doveva fare Zurlini. Tanti erano scettici, papà aveva sempre lavorato con Cesare Zavattini, con cui aveva un legame strettissimo. Ma in questa occasione lavorò con Ugo Pirro e vinse l'Oscar. Mio fratello Manuel compose la colonna sonora, che fu candidata all'Oscar ma vinsero le musiche di Il Padrino".
La vicenda del timido Giorgio innamorato di Micol (Dominique Sanda), legatissima al fratello Alberto (Helmut Berger), che vive una storia con l'atletico comunista Giampiero Malnate (Fabio Testi), giovani, pieni di vita, immersi nella grande bellezza mentre il fascismo promulga le leggi razziali, esclude gli ebrei dalle scuole, dai circoli, e i nazisti iniziano a deportare le famiglie, fa ancora riflettere. "E' un film importante perché la mia generazione - spiega De Sica - vide cosa succedeva nell'Italia di quegli anni. La differenza che c'è tra il film di papà e gli altri dedicati alla Shoah è che in Il giardino dei Finzi Contini non c'è la consapevolezza di quello che sta accadendo, non viene rappresentato l'orrore. Micol e i suoi amici vivono spensierati, leggendo Cocteau, giocando a tennis, organizzando cene. Quando tutta la famiglia viene condotta nella scuola e poi divisa per essere deportata è un momento che lascia senza respiro perché per tutto il film papà ti fa capire il senso della tragedia imminente ma senza mostrare nulla di esplicito".
Il set fu organizzato tra Roma e Ferrara anche se la villa col famoso giardino non era nella città, è un abile montaggio ad aver creato quel luogo incantato. Molte scene sono state girate a Roma a Villa Ada e al Giardino Botanico, la dimora dei Finzi-Contini invece è villa Litta Bolognini di Vedano al Lambro. L'ingresso del giardino nel film invece è veramente a Ferrara, in Corso Ercole I d'Este, vicino a dove l'aveva immaginato Bassani. "Lo sa perché per il ruolo di Micol fu scelta la Sanda? Perché papà non era riuscito a trovare un'attrice che avesse quel volto aristocratico, bellissimo, da ragazza perbene, si figuri che fece un provino persino a Patty Pravo... Ma Dominique - continua Christian - gli era sembrata perfetta, l'aveva vista in Une femme douce".
Il film fu presentato in tutto il mondo, ebbe successo al botteghino, anche se Bassani prese le distanze perché in disaccordo con le scelte fatte dal regista in fase di sceneggiatura, cambiò l'impostazione del romanzo. "Ricordo la prima a Gerusalemme - racconta De Sica - ero seduto vicino a mio padre che aveva accanto Golda Meir e vicino a mamma c'era Moshe Dayan. Scorrono i titoli di coda e l'applauso non parte, mio padre mi stringe il braccio: 'Non è piaciuto'. Quando si accesero le luci, tutto il pubblico piangeva. Vedere Golda Meir con le lacrime agli occhi è un'emozione che mi porto ancora dentro. Poi ricordo gli applausi, e la felicità di papà".
Sotto, 1978-79, Genoa-Cagliari 1-1, il goal di Berni. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che uno spettacolo itinerante di successo ("La grande magia" con otto persone in scena), un libro ("La magia della vita, la mia storia", edito da Mondadori) una sorta di Nobel della magia: The Masters Fellowship, come dire "il mago dei maghi", conferitogli dall'Accademia delle Arti Magiche di Hollywood. E' la prima volta che il riconoscimento viene attribuito ad un europeo. Silvan (al secolo Aldo Savoldello) lo riceverà domenica 17 maggio a Los Angeles nel corso di una cerimonia alla quale saranno presenti centinaia tra i maghi più famosi del mondo, attori ed esponenti di primo piano della vita americana, tutti pronti a celebrare il collega italiano che ha raggiunto "il massimo successo artistico". E' il momento di Silvan, ma in realtà è sempre il suo momento poiché sono anni che questo artista, applaudito e amato, affascina con la sua eleganza e le sue magie milioni di persone sulle scene di tutto il mondo.
La sua popolarità risale ai tempi del programma televisivo "Primo applauso" degli anni '60, ma appare anche inutile rievocare le sue tappe perché, come si dice, 'il mago è senza tempo'. Ma non si può non parlare di "Sim Salabim", un'altra trasmissione del sabato sera della Rai, in onda dal '72 all'80, e poi della serie di giochi di prestigio con le carte nella sigla di apertura di "Scala Reale", oppure delle 26 puntate di "Buonasera... con Silvan", tutti show con milioni di telespettatori, fino al tour che lo sta portando in questi giorni nei teatri italiani. Ospite per sette volte dello show di Ed Sullivan negli Stati Uniti, si è esibito davanti alle più grandi personalità, da Ronald Reagan e a Elisabetta II, e ha ricevuto i riconoscimenti più prestigiosi "per la sua continua popolarità e il suo costante successo", come ha scritto nella motivazione la Società Internazionale degli illusionisti.
Il suo nome fa ormai parte dell'immaginario collettivo: è entrato nei discorsi della gente e viene citato, per esempio, quando si è di fronte ad una situazione che sembra frutto di una magia, la mossa di un illusionista, "ma chi sei, Silvan?", si dice infatti. Insomma, passano gli anni, ma si rimane ancora volentieri a bocca aperta davanti allo spettacolo che il mago degli italiani ci offre con il sorriso, creando stupore e simpatia.
Preziosi ieri ha detto che non vuole prendere in giro nessuno, che in Europa sarà molto difficile che ci riammettano. Poi Perotti partirà, arriverà Pandev. Complimenti davvero! Stiamo quindi per avviarci alla fine della presa per il culo più imbarazzante di sempre: prima i conti sono a posto poi non sono a posto, prima facciamo ricorso per essere riammessi e ci sono buone possibilità poi non ci sono molte possibilità e ci andrà la Doria o l'Inter... se in Italia il calcio malato è nelle mani di gente come Preziosi Lotito Galliani e ci si arrangia sempre, in Europa il discorso è serio e se non sei presentabile non ti fanno nemmeno entrare in casa, piuttosto che la società più antica d'Italia oggi dovremmo aver scritto sulla casacca la società più impresentabile (e bugiarda) d'Italia. Sotto, Claudio Tarocco, uno dei portieri più scarsi di sempre, riserva di Girardi nel biennio 1976-78... sono gli ultimi portieri a parare senza guanti. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che l'immancabile sigaretta accesa tra le dita. Il dorso della mano che la stringe tutto sporco di terra. E mentre la bocca aspira il fumo con avidità, l'espressione che cogli sotto il ciuffo ti trasmette un senso di infinita serenità. Lui è il Maestro e questa foto versione contadino è quella (emblematica) scelta per la locandina di Faber in Sardegna & L'ultimo concerto di Fabrizio De André. È il film - chiamiamolo così, anche se in realtà si tratta dell'abbinamento di due (peraltro splendidi) documentari - che offre in duplice dimensione, privata e pubblica, la statura titanica del cantautore: sarà nei cinema per due giorni, il 27 e il 28 maggio. Attraverso testimonianze, immagini e aneddoti svela nella prima parte il rapporto di fulminante amore che legò Faber alla Sardegna e in particolare all'Agnata, in Gallura, la fattoria dove consumò la personale e proficua utopia del Cincinnato part time. Nella seconda parte regala invece l'emozionante, metronomica perfezione di una performance di De André, la dimensione live che esaltava le sue virtù di cantante, autore e capobanda carismatico. Si tratta del concerto ripreso al Teatro Brancaccio di Roma dove quel tour d'addio celebrò due date memorabili, il 13 e 14 febbraio del 1998: qui la registrazione del concerto è disponibile in una versione inedita, restaurata e rimasterizzata in ultra HD con audio 5.1. Del film e del suo amatissimo protagonista parliamo con Dori Ghezzi, che di Faber fu dal 1974 la compagna di vita - Faber se ne andò l'11 gennaio 1999 - condividendo felicità e sofferenze, gioie e nevrosi, successi e traumi, come il sequestro di cui furono vittime nella seconda metà del 1979.
"La vita in Sardegna è forse la migliore che un uomo possa augurarsi: 24.000 chilometri di foreste, di campagne, di coste immerse in un mare miracoloso dovrebbero coincidere con quello che io consiglierei al buon Dio di regalarci come Paradiso...", disse Fabrizio. Insieme a Gigi Riva, resta il miglior ambasciatore dell'isola proveniente dal "continente". "Direi proprio di sì, al di là della bellezza estetica sono tra quelli che hanno capito meglio la vera essenza del'isola", conferma Dori. "Gianfranco Cabiddu, che è il regista di Faber in Sardegna, è riuscito poi a creare un'autentica osmosi tra lui e Fabrizio: da sardo è riuscito a vedere la sua terra con lo stesso sguardo del 'forestiero', lo stesso entusiasmo, lo stesso stupore, lo stesso amore, la stessa visione godereccia della Sardegna. Insomma, la precisa sensazione dell'immensa fortuna che si prova a vivere lì, a cogliere profondità di campo visivo che non trovi altrove: una nitidezza unica, favolosa".
Cos'era l'Agnata? Lo spazio per una riconversione alla natura? Una Comune moderna? Un sorta di agriturismo ante litteram? "In un primo momento era semplicemente il luogo dove io e Fabrizio avevamo scelto di vivere, presto si trasformò in un punto di incontro, una sorta di lussureggiante Agorà. Non c'era bisogno di chiamare prima, niente prenotazioni. Amici e turisti arrivavano, magari raccontando 'passavo di qua...' - immagini se uno poteva passare lì per caso - e noi si dava ospitalità a tutti con piacere. Chiunque poteva godere di questa sua intuizione".
Ma Fabrizio credeva davvero di essere un contadino? "Ci credeva come credeva in tutto quello che faceva. Qualunque fossero le sua scelte, e parlo anche degli hobby, andava sempre a fondo, non viveva mai nulla in superficie, e anche in quella occasione si dimostrò entusiasta della vita. Si procurò i libri giusti e prese a studiare come un secchione: voleva sapere ogni cosa su allevamenti e coltivazioni... E quando trovava gli argomenti più appassionanti, chessò: come si coltiva una vigna, non lo fermavi più. La cosa stupefacente poi è che a Faber riuscivano imprese impossibili, più gli dicevano "lascia stare quel pezzo di terra, lì non crescerà mai nulla", più lui si incaponiva. Ordinava sementi da lontano - ricordo una volta che ne giunsero copiose dall'Olanda, lui pretendeva sempre il meglio - poi una volta ottenuto quel che voleva si dannava fino a quando la terra non gli dava ragione. E a quel punto il suo orgoglio diventava la nostra felicità".
L'orgoglio più grande del Faber coltivatore? "L'olio era straordinario, ne era particolarmente orgoglioso. Fra l'altro tra i nostri amici c'era anche Frampi Carapelli, uno che della materia se ne intende. Veniva, lo studiava, lo analizzava come fosse un sommelier, e poi commentava: buonissimo, eccezionale".
Come e quando arrivaste all'Agnata? "Faber coltivava il desiderio di tornare in campagna, dove era cresciuto da bambino, a Revignano d'Asti. C'eravamo conosciuti da poco, e dopo la delusione di Storia di un impiegato, un disco male accolto dal pubblico all'uscita, mi confidò l'intenzione di voler cambiare vita radicalmente e realizzare quel vecchio sogno. Anch'io d'altronde sentivo l'esigenza di stare un po' defilata dalla gente. Lui genovese, io milanese, iniziammo a cercare il fondo che facesse al caso nostro dalle parti di Ovada, in Piemonte. Intanto Faber, che aveva già casa a Portobello di Gallura - quella estiva, da turista - e si faceva accompagnare laggiù da un autista di Tempio, Giovanni Mureddu, aveva espresso quel desiderio anche a lui. Confidenza che si rivelò preziosa. Era il 1975. Mureddu lo avvisò che stavano vendendo un'intera vallata di 800 ettari... Finì che ne acquistammo una piccola parte, tre appezzamenti attigui, con un solo 'stazzu', come lo chiamano loro, un insediamento rurale fra rovi e muretti cadenti. Era abbandonato da decenni. Noi lo ricostruimmo secondo il nostro sogno più ambizioso: trasformammo davvero quell'angolo gallurese di Sardegna, l'Agnata, nel Paradiso".
Cosa ne è adesso di quel paradiso? "È rimasto il ristorante e un piccolo albergo, una decina di camere, una diversa dall'altra, come quando le avevamo concepite per abitarci o per ospitare gli amici. Ora lo hanno in gestione due persone giovani e motivate, lui si chiama Fabrizio lei Angelica, sono belle persone innamorate dell'Agnata pure loro. Spero poi che in futuro si riesca a riportare in questo scenario i concerti di Jazz in Time, come per qualche anno ci è riuscito di fare con l'aiuto di Paolo Fresu. Proprio a ridosso della casa c'è un prato che assomiglia ad un anfiteatro naturale, in grado di accogliere anche 2500, 3000 persone. Sono stati concerti memorabili, di appeal formidabile, con la tipica eleganza del jazz. Si alternavano momenti toccanti di silenzio e altri di entusiasmo rumoroso. Poi, finita la performance, gli spettatori si alzavano, se ne andavano e non trovavi un pezzo di carta per terra. Uno spettacolo a sé era la cornice di quei concerti. Io mi immaginavo Fabrizio che li seguiva dalla finestra dalla quale amava affacciarsi. L'Agnata è rimasta un'oasi verde, il paradiso immerso tra sughere e quercie".
La Sardegna non evoca soltanto ricordi felici. Il sequestro è una cicatrice difficilmente rimarginabile. Eppure lei e Fabrizio riusciste a perdonare i rapitori. "Da una parte c'è il valore del perdono in termini assoluti, dall'altra c'è la volontà di andare avanti. Non ci siamo mai costituiti parte civile, anche perché quelli che erano vicini a noi, i custodi, erano vittime a loro volta, gente costretta alla latitanza per reati minori, ricattati, ostaggi loro stessi. Tra di noi si era stabilita una certa comprensione, non dico amicizia, ma rispetto. Per loro, condannati alla pena più alta, 25 anni di carcere, provammo empatia. Ebbero le condanne più pesanti perché non vollero ammettere la loro colpevolezza: si vergognavano di quel che avevano fatto. Invece l'ideatore del sequestro, un toscano, l'uomo che si fece scoprire depositando in banca parte dei soldi pagati per il riscatto, scelse di fare il pentito e se la cavò con un paio d'anni. Poi scappò all'estero perché la giustizia lo ha perdonato, ma chissà se lo hanno perdonato i complici... MI torna in mente un episodio divertente. Uno dei nostri carcerieri, una persona discretamente colta, un giorno confessò a Fabrizio di essere un grande appassionato di Guccini. 'E perché non avete preso lui?', gli chiese Faber. 'Non ero libero di farlo', rispose".
Faber in Sardegna è solo una parte del film in uscita. "È un bellissimo documentario che racconta la Sardegna di Fabrizio. Cabiddu ha fatto un gran lavoro assieme al suo aiuto Edoardo Ferretti (figlio di Dante Ferretti e Francesca Lo Schiavo, ndr), agli amici e ai tanti collaboratori sardi che li hanno assistiti. E però è parso opportuno, per l'uscita nelle sale cinematografiche, abbinare quel doc a un altro dove Faber fosse il protagonista assoluto nella dimensione più amata dal pubblico, quella del concerto".
Il titolo è L'ultimo concerto di Fabrizio De André. Con quel tour Faber era riuscito a concretizzare un altro sogno che coltivava da sempre: riunire nel lavoro l'intera famiglia. Infatti c'erano Cristiano e Luvi sul palco, e nella carovana del tour c'era sempre anche lei. "Già, sono un po' quelle cose che il destino vuole e disegna per te. Come se Fabrizio presagisse qualcosa - e in realtà già non stava bene - e avesse pensato: stavolta il tour me lo voglio godere insieme ai miei figli".
Fu un tour trionfale. Faber poi era un perfezionista del palcoscenico, i suoi musicisti lo ricordano benevolmente come un autentico mastino: severo ma gratificante. "Effettivamente pretendeva il massimo da chi lavorava con lui, come lo pretendeva da se stesso. Era esigente, sapeva che se tutto filava liscio, al meglio delle possibilità, faceva felici tutti: lui, i musicisti, gli spettatori. Fabrizio sapeva essere un grande amico, non solo dei suoi musicisti e non solo sul lavoro. Io stessa ho vissuto questa sensazione: la mia autostima è cresciuta grazie a lui, la verità è che Faber riusciva a tirare fuori la parte migliore di chiunque si trovasse a interagire con lui. Nell'arte e nella vita".
Per molti De André non era un semplice cantautore. Era un maestro di pensiero. Nella sua ultima intervista a Repubblica, che ci concesse proprio alla vigilia del concerto al Brancaccio, si schermì: "Sono gaudente, inaffidabile e vigliacco come la maggior parte dei miei simili, titoli che non ritengo idonei a beatificazioni o statue equestri". Gli hanno dedicato un'infinità di libri, dischi, premi, scuole, vie... Quasi presagiva il pericolo della beatificazione postuma. "Sono d'accordo, come presidente della Fondazione De André mi trovo spesso nella difficile condizione di giudicare ogni iniziativa in suo nome e confesso che non è per niente facile limitare il percorso di un amore così travolgente. Se le cose sono fatte con rispetto, con amore appunto, non puoi proprio dire di no. Però c'è un limite a tutto: ci è toccato di bloccare l'uscita, già pronta con tanto di copertina, di un libro intitolato Cento inediti di Fabrizio De André la cui paternità il pubblico avrebbe poi attribuito a noi, alla Fondazione. L'abbiamo scoperto sul web dove girava da un po'. Questa davvero era un'operazione vergognosa".
Lei è stata moglie, confidente, complice, psicologa e chissà quant'altro ancora, per De André. Qual è il ricordo del "suo" Faber che conserva con più dolcezza? "I suoi ultimi mesi di vita. Probabilmente sentiva che non ce l'avrebbe fatta e quanto più si attaccava alla vita tanto più si faceva dolce e conciliante. Io mi ero completamente dedicata a lui e Fabrizio continuava a chiedermi scusa, quasi non si perdonasse di dovermi abbandonare e di darmi così tanto da fare. Le sue premure mi mettevano in imbarazzo. Questo era lui".
Qual è l'eredità più importante che Faber ci ha lasciato? "La consapevolezza di poter vivere la vita in un certo modo, credendo in se stessi, sapendo pure che la cultura paga. Nel corso degli anni tanti ragazzi mi hanno voluto esprimere la loro gratitudine dicendomi che l'averlo conosciuto è stata la loro fortuna. Vero è che per tanti Fabrizio è un maestro di pensiero, ultimamente ne abbiamo avuti pochi. È una fortuna che il Padreterno ce l'abbia donato. Ma non facciamo l'errore di considerarlo un dio, parliamo di un autore che nelle sue canzoni trattava Gesù Cristo come persona, mai come il figlio di Nostro Signore. Figuriamoci se avrebbe voluto essere beatificato lui! E però è una grande soddisfazione per me sentire adesso che anche il Papa esprime concetti tanto cari a Fabrizio, il riferimento agli emarginati, ai sofferenti, agli ultimi. È bello constatare che partendo da visioni tanto differenti, quella agnostica e l'altra religiosa, si possono condividere i medesimi sentimenti".
Calcoli alla mano e calendario in testa, se vogliamo continuare ad ambire all'Europa, è obbligatorio rosicchiare punti alla Doria la prossima partita, perchè per le restanti due sarà molto difficile viste le loro avversarie (Empoli e Parma), in poche parole bisognerà vincere a Bergamo senza che la Lazio perda a Genova... naturalmente se la Commissione ci valuata idonei. Sotto, primissimi anni '70, un ventenne Claudio Maselli. E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che "La verità è che io non volevo fare l'attrice. Volevo fare la veterinaria, perché amo gli animali e perché amo tutto quello che rappresenta la cura. Mi piace curare le piante, curare la casa, e ovviamente anche le persone. Ma come spesso succede, le storie non vanno nella direzione immaginata, soprattutto la storia di una ragazza che, già all'età di quindici anni, ha troppo chiari i propri obiettivi. Per me questa deviazione dai piani arrivò in una serata estiva a Rimini". Barbara De Rossi, attrice molto amata dal pubblico, 70 film tra cinema e tv e ora conduttrice di Amore Criminale in onda su Raitre, racconta di se stessa in 'Bibbi esci dall'acqua' (Rizzoli, euro 17,00, pagine 252). A volte basta uno sguardo, un gesto semplice, un sorriso appena accennato per sentire la voglia di raccontare tutto di sé a un'estranea. È quello che accade a Barbara De Rossi e a Beatrice, che ha una sciarpa grande a coprirsi il viso e la voce insolitamente flebile e roca. Settimana dopo settimana, sul Frecciarossa Roma-Torino i loro incontri si fanno sempre meno casuali, e Barbara parla per la prima volta delle gioie ma anche delle ombre che si celano dietro i sorrisi luminosi con i quali si mostra al mondo: l'infanzia a Rimini e l'esordio quasi casuale al cinema a soli sedici anni, con il padre che le accorda il permesso solo quando Marcello Mastroianni chiama personalmente a casa; il trasferimento a Roma segnato dalla precoce perdita dell'amatissima madre; il successo in tv con La Piovra, un primo matrimonio andato male con Andrea, durato 4 anni finito quando scopre che lo tradisce con una collega amica, un secondo intenso e travolgente finito dopo anni, con il ballerino classico Branko Tesanovic, "Il padre di Martina è stato il migliore di tutti, mi conosce meglio lui come donna, di quanto non mi conosca io stessa". Fino ad arrivare a un amore sbagliato, un uomo di 25 anni più giovane di lei, arrivato casualmente quando un grande sogno si rivela solo un grande errore e la favola si trasforma in un incubo. Quell'amore sbagliato che spesso entra nella vita delle donne e le costringe a essere più coraggiose che mai: si chiama annientamento, demolizione. Per fortuna, mi sembra sia più raro del tradimento". De Rossi racconta "Fu così. Quel sorriso sembrò dirmi: "Lo hai voluto tu" e subito si trasformò in una smorfia di disprezzo. E quella smorfia di disprezzo portò ad altro: mi arrivò uno schiaffo in piena faccia. Un inferno durato almeno due anni. È un inferno che tante donne conoscono, e in cui purtroppo non ha importanza il tempo che passa. Ha importanza il fatto che dalla prima volta in poi è comunque un tempo troppo lungo. Le donne che subiscono violenza si sentono come un inverno muto". Il programma condotto da De Rossi ripercorre storie vere sul peggio che può succedere in amore. A ogni puntata "ricordo un numero: 1522. Il numero della rete antiviolenza". Barbara confessa nel libro che le loro storie le rimangono nell'anima. "La violenza contro le donne è un tema che mi ha sempre interessato. Quando mi hanno proposto questa trasmissione sono stata felice di accettare. Le cose vanno raccontate con il cuore, con emozione ma sempre con la giusta misura". In "Bibbi esci dall'acqua" Barbara De Rossi apre il suo cuore ai ricordi trovando la delicatezza per parlare di sé e di tutte le donne che vogliono essere forti senza perdere la dolcezza, sicure senza nascondere le fragilità, e che vogliono continuare a credere in se stesse, a lottare, a sognare e a splendere.
Splendido testa a testa con la Doria per il posto europeo, con noi sfavoriti per il punto in meno e lo svantaggio nello scontro diretto (ma da non sottovalutare la differenza reti, +6 goals in vantaggio noi), ora loro riceveranno una Lazio arrabbiata e famelica di punti (Roma e Napoli hanno facili partite interne e vincono al 100%) mentre noi andremo a Bergamo, è qui che dobbiamo recuperare la differenza. Sulla partita di ieri che dire? risultato eccessivo e Torino che tiene il campo 70-75 minuti, stanco per la lunga stagione anche europea e per la partita di mercoledì contro l'Empoli, ma questo non toglie i nostri meriti, un bel voto alla squadra e un 7,8 a mister Gasperini per aver mantenuto la squadra sul pezzo nonostante la bruttissima notizia che l'Europa non ci ritiene degni di giocare oltre le Alpi. Sotto, 1976-77: Juventus-Genoa, Girardi anticipa Bettega. E forza Genoa!
Nel 1969 le 100 ore della prima guerra del football
- da Un Cuore Grande Così
il 11/05/2015 @ 15:47
El Salvador contro Honduras: quando il calcio diventa guerra (da: calcioscopio.com) Uno straordinario mezzo di propaganda nazionalista. Un modo per parlare alla pancia delle persone, spingendole a chiudere gli occhi sulle diseguaglianze in nome dell'amor di patria. Questo è il calcio, se a scendere in campo sono le nazionali. Lo sapeva Mussolini, quando ci furono i Mondiali del 1934; lo sapeva la stampa fascista, quando esaltò l’eroica sconfitta dei leoni di Highbury; lo sanno tutti i governanti, democratici e non, di tutti i paesi del mondo: il calcio è potentissimo. Lo sapevano Oswaldo Lòpez Arellano, presidente dell'Honduras, e Fidel Sànchez Hernàndez, presidente di El Salvador. Due generali prestati alla politica, come spesso succedeva nella parte di America che nel 1969 non stava andando sulla Luna. Due uomini che avevano un enorme bisogno di farsi la guerra e, di conseguenza, cercavano un pretesto per persuadere i propri cittadini a odiare lo straniero. Nel 1969, non era facile vivere in America Latina. La Guerra fredda esigeva il suo carico di golpe, torture e morti. In America centrale, con l’eccezione di Cuba, i paesi erano retti da governi appoggiati dagli Stati Uniti. Furono proprio gli Usa, nel 1960, a spingere per un mercato unico centroamericano, che coinvolse 5 paesi: Nicaragua, Guatemala, Costarica, El Salvador e Honduras. Gli investimenti esteri successivi si concentrarono soprattutto sul paese più ricco, che era anche il più piccolo: El Salvador, 3 milioni e mezzo di abitanti distribuiti su 21.000 km quadrati. Nonostante la densità di popolazione molto elevata, l’economia del piccolo paese centroamericano si basava sul latifondo: 14 famiglie possedevano la maggior parte delle terre e le facevano coltivare ai braccianti. L’arrivo degli investimenti portò crescita economica. La crescita economica portò crescita demografica. La crescita demografica portò un altissimo numero di disoccupati. Per risolvere il problema, nel 1967 il presidente Fidel Sànchez Hernàndez firmò un accordo con il confinante Honduras, abitato da un milione di persone in meno e grande 5 volte e mezzo El Salvador. Sfruttando la neonata Convenzione bilaterale dell’immigrazione, 300.000 contadini lasciarono El Salvador e si trasferirono in Honduras, fondando villaggi e coltivando terreni. La cosa non piacque agli honduregni, che da anni lottavano per un miglioramento delle proprie condizioni di vita. Le loro proteste preoccuparono molto il presidente Oswaldo Lòpez Arellano, che aveva bisogno di mantenere stabilità politica per non rischiare di perdere l’appoggio dei latifondisti locali e dell’attore economico più importante del paese: la statunitense United Fruit Company, oggi Chiquita, che con le sue sterminate piantagioni di banane occupava gran parte del terreno coltivabile dell'Honduras. Così, per calmare i contadini honduregni, Arellano fece una riforma agraria. Una riforma molto semplice: espropriò i contadini salvadoregni e li espulse dall’Honduras, rimandandoli in un paese dove ormai non avevano più niente. Ma El Salvador non aveva più posto per loro: provò a respingerli e accusò l'Honduras di aver rotto un trattato internazionale. La stampa di entrambi i paesi scese in campo, ciascuna accusando il paese confinante e aizzando i cittadini. Era il 1969, mancava un anno ai Mondiali di Messico 1970. Come in tutto il mondo, anche in America centrale si stavano giocando le qualificazioni. E sulla strada per l’Azteca, arrivò il match Honduras-El Salvador. Erano le semifinali, la vincente sarebbe andata a sfidare Haiti. Era il regolamento di conti perfetto. La partita di andata si giocò l’8 giugno 1969, all’Estadio National di Tegucigalpa, capitale dell’Honduras. I giocatori di El Salvador scesero in campo senza aver chiuso occhio: la sera prima, davanti al loro albergo, si era riunita una folla decisa a impedirglielo. Per tutta la notte, gli honduregni erano andati avanti sbattendo bastoni contro lamiere, suonando clacson, lanciando petardi, tirando sassi contro i vetri. Non c’era niente di strano, in realtà: quella di non far dormire gli avversari era una strategia comune in America Latina. In campo, El Salvador resse fino all’ultimo minuto. Proprio quando i giocatori iniziavano a pensare di averla sfangata, l’Honduras si portò in vantaggio. Un minuto dopo, a Salvador, una ragazza si alzò dal divano, si diresse verso la scrivania di suo padre, prese la pistola, se la puntò al cuore e fece fuoco. Aveva 18 anni, si chiamava Amelia Bolaños. «Una giovane ragazza non sopporta di vedere la sua patria messa in ginocchio», spiegarono i giornali. La ragazza divenne un’eroina nazionale. Il governo indisse funerali di Stato. Partecipò tutta la capitale. Chi non assistette alla cerimonia di persona la seguì in televisione. La processione era aperta dal picchetto d’onore dell’esercito. Poi c’era la bara, seguita dal presidente della Repubblica con i suoi ministri. A chiudere, i giocatori di El Salvador. La vendetta arrivò una settimana dopo. I giocatori dell’Honduras furono vessati molto più dei colleghi salvadoregni. Alla prima uscita dall’albergo, per un allenamento di rifinitura, un ragazzo salvadoregno che faceva da accompagnatore della nazionale dell’Honduras fu preso a sassate e ucciso. I tifosi spaccarono tutti i vetri dell’albergo, lanciando all’interno uova marce, topi morti e stracci maleodoranti. I giocatori si rifugiarono sul terrazzo per proteggersi. Il giorno dopo, furono divisi in gruppetti e mandati nelle case di alcuni honduregni residenti a El Salvador. Per portali allo stadio furono necessari i carri armati dell’esercito salvadoregno, che fecero tutto il percorso tra due file di persone urlanti, che tenevano in mano la foto di Amelia Bolaños. Lo stadio era circondato dall’esercito e intorno al campo c’erano i cordoni della Guardia Nacional con i mitra in mano. Durante l’inno, la bandiera dell’Honduras fu bruciata e sostituita da uno straccio. «Meno male che abbiamo perso», commentò 2 ore dopo l’allenatore dell’Honduras Mario Griffin, al termine di un 3-0 che di calcistico aveva poco. I giocatori, scortati dai carri armati, andarono direttamente dallo stadio all’aeroporto, mentre i tifosi honduregni furono costretti a scappare verso la frontiera a furia di pugni e calci. Due di loro morirono, molti altri furono feriti.
All’epoca non esisteva ancora la differenza reti, così fu necessaria una terza partita in campo neutro. Il match si disputò all’Azteca, il 27 giugno 1969: in quello stesso stadio, 359 giorni dopo, il Brasile avrebbe battuto 4-1 l’Italia portandosi definitivamente a casa la Coppa Rimet. Non bastarono 90' per chiudere la pratica. Davanti a migliaia di tifosi inferociti, separati da 5.000 agenti di polizia, iniziarono i supplementari. All’11' l’attaccante Mauricio Alonso Rodriguez segnò il gol decisivo: 3 a 2 per Salvador. Pochi minuti più tardi scoppiò una guerriglia urbana in tutte le strade del circondario. Un antipasto di quello che sarebbe successo di lì a poco. A partita conclusa Armando Velàzquez, colonnello honduregno, scese negli spogliatoi per incontrare i giocatori: «Abbiamo rotto le relazioni con El Salvador. Probabilmente ci sarà una guerra» disse laconico. Ormai gli animi erano sufficientemente surriscaldati. I pochi salvadoregni rimasti in Honduras venivano quotidianamente presi di mira dagli honduregni. I salvadoregni, dal canto loro, trovavano inaccettabile il comportamento dell’Honduras che, dopo averli espropriati, espelleva i loro concittadini. Scatenare una guerra, in queste condizioni, era estremamente facile. Poche settimane dopo, il 14 luglio, El Salvador invase l’Honduras. La guerra durò solo 100 ore, fino al 18 luglio. Non si sa quanti civili e soldati siano morti, ma si stima che ci furono tra le 2.000 e le 6.000 vittime. El Salvador non riuscì a sfondare e alla firma della tregua fu minacciato di sanzioni, se si fosse azzardato di nuovo a invadere l’Honduras. L’Honduras fu obbligato ad accogliere nuovamente i contadini salvadoregni scacciati, ma pochi ebbero il coraggio di tornare al di là della frontiera. Eppure, entrambi i presidenti furono felici e considerarono il conflitto una vittoria. Il perché lo spiega Ryszard Kapuscinski, giornalista di guerra polacco, tra i primi ad arrivare sulla linea del fronte, nel suo libro “La prima guerra del football”: «I due governi sono rimasti soddisfatti della guerra perché per qualche giorno Honduras e Salvador hanno riempito le prime pagine dei giornali del mondo intero, attirando l’attenzione dell’opinione pubblica internazionale. I piccoli Stati del Terzo, del Quarto e di tutti gli altri mondi dei poveri possono sperare di suscitare qualche interesse solo quando decidono di spargere sangue. Triste, ma vero».
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che c’è un calcio di punizione che è passato alla storia. Ma non ci sono palloni spediti all’incrocio dei pali, nè siluri indirizzati all’angolino basso. Non ci sono miracoli del portiere o legni che negano un gol straordinario. Niente di tutto questo. C’è un calcio di punizione che è passato alla storia senza mai essere stato battuto. E’ un calcio di punizione iconico, il simbolo di una storia tristissima, una storia che con il calcio, forse, ha poco a che vedere. E’ la storia del calcio di punizione che Rivelino non poté mai battere. Facciamo un passo indietro. Mettiamo in pausa Rivelino che vuole battere il suo calcio di punizione. Andiamo a vedere dove siamo, cosa sta succedendo. Sono i Mondiali tedeschi del 1974. Il girone B vede in campo Brasile, Jugoslavia, Scozia e i campioni d’Africa in carica dello Zaire. L’esordio con la Scozia è perdente, ma dignitoso. La partita si conclude con un 2-0 per gli scozzesi.
Il disastro succede alla seconda giornata. Sugli africani si abbatte l’uragano slavo. Nove reti, un nove a zero storico. Un disastro per i giocatori, un’umiliazione impossibile da mandare giù per il potere politico dello Zaire. Potere politico che, in quel 1974, era saldamente nelle mani del generale Mobutu. Uno di quelli che nello sport vedeva il veicolo della sua propaganda, uno di quelli che sperava che la spedizione dello Zaire in Europa, a quei Mondiali, avrebbe potuto fare da trampolino di lancio per il suo regime. Dopo quei nove gol, capì che non fu così. I giocatori dello Zaire raccontano che, al termine della partita con la Jugoslavia, dei militari fecero irruzione nello spogliatoio.
Erano gli scagnozzi di Mobutu. “Se all’ultima partita del girone, contro il Brasile, prendete più di 3 gol, passate i guai. Voi e le vostre famiglie“. C’era in palio l’onore dello Zaire, c’era in palio la vita di quei ragazzi. Così possiamo tornare a quel calcio di punizione che Rivelino voleva battere. Sul 3-0 per il Brasile. Con i giocatori dello Zaire che capiscono che da quel calcio di punizione potrebbero dipendere le loro sorti. Rivelino esita, non parte. Dalla barriera, al fischio dell’arbitro, si sgancia Ilunga Mwepu. Corre, come un pazzo, verso il pallone, e lo calcia via.
E’ come se Mwepu ignorasse le più elementari regole del calcio. I brasiliani ridacchiano, Mwepu si innervosisce, apostrofa Jairzinho con parole incomprensibili. Mwepu le regole del calcio le sa, eccome. E sa anche che se Rivelino butta dentro quella punizione, potrebbero essere guai per lui, per i suoi compagni, per tutti. E’ un gesto disperato il suo. Il gesto di chi vede in quel pallone un pericolo da calciare il più lontano possibile. Un grido di paura, una ribellione contro le minacce di Mobutu. E’ la voglia di scappare da tutto e da tutti. E’ la voglia di salvare la pelle, è l’istinto che chiama. Fortunatamente il Brasile vincerà “solo” tre a zero, i giocatori africani in qualche modo si salveranno, anche se non saranno più graditi in patria.
Quel calcio di punizione è passato alla storia, per anni, come un momento di grande ilarità. Prima che qualche giocatore dello Zaire tirasse fuori la verità. “Pensavamo che saremmo diventati ricchi, appena tornati in Africa, ma dopo la prima sconfitta venimmo a sapere che non saremmo mai stati pagati e quando perdemmo 9-0 con la Jugoslavia gli uomini di Mobutu ci vennero a minacciare. Se avessimo perso con più di tre gol di scarto dal Brasile, ci dissero, nessuno di noi sarebbe tornato a casa.”
Ieri, dopo una lunga malattia, a 66 anni, Ilunga Mwepu se ne è andato. Volato via, come quel pallone che Rivelino voleva mettere in porta e lui calciò via il più lontano possibile. Se n’è andato, ma resterà nei nostri cuori come la dimostrazione che il calcio, molte volte, è ben più che un semplice gioco.
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che forte dei riconoscimenti conquistati dal suo cinema - due volte Grand Prix a Cannes con Gomorra e Reality - Matteo Garrone firma Il racconto dei racconti, un film coraggioso ambientato in un mondo fantastico ma estremamente vero, prende ispirazione da tre racconti del seicentesco Il cunto de li cunti di Giambattista Basile ma spinge ancora più a fondo a livello di immagine e di racconto. Il film sarà in concorso al festival di Cannes insieme a Mia madre di Nanni Moretti e Youth - La giovinezza di Paolo Sorrentino, un tris italiano che non si vedeva da oltre vent'anni. Uscirà in sala in contemporanea con il festival, il 14 maggio, in più di 400 copie.
"Abbiamo scelto La Pulce, La vecchia scorticata e La cerva fatata, ma poi abbiamo preso suggestioni anche da altri racconti - spiega Garrone - è stato difficile sceglierle tra le cinquanta storie del Cunto, avevamo anche iniziato ad adattarne altre poi ci siamo concentrati su queste tre che avevano in comune la figura della donna in tre diverse età. E' stata una sofferenza non farne una serie tv, magari la faremo, sicuramente se ne potrebbe fare un seguito". I protagonisti sono tre sovrani, tutti a modo loro vittime delle proprie ossessioni e dei propri desideri. Salma Hayek è la regina di Selvascura, disperata perché non può avere un figlio, pronta a mangiare il cuore sanguinante di un drago marino perché sembra che solo così potrà restare incinta. Vincent Cassell è il gaudente re di Roccaforte alla ricerca continua di nuovi piaceri: finisce a letto con una vecchia che ha saputo gabbarlo con una voce angelica e che poi la magia trasforma in una giovane bellissima. Toby Jones è il sovrano di Altomonte che trascura la sua unica figlia per allevare una pulce che ingrassa tanto quanto un maiale; morta di vecchiaia la pulce, il re espone la pelle della pulce e decide che darà in sposa la figlia al cavaliere che saprà indovinare a quale animale appartiene la pelle. Se l'aggiudicherà un orco. Nel cast anche gli italiani Alba Rohrwacher e Massimo Ceccherini nei panni di due circensi, Renato Scarpa in quelli di un barbiere e Giselda Volodi in quelli di una dama di corte.
I cunti moderni di Basile. "Quando ho letto Basile - dice Garrone - mi è stato subito molto familiare, un genio assoluto. I suoi racconti mi hanno colpito per originalità, ricchezza di immagini e per la bellezza dei personaggi. Spero che questo autore, che ha ispirato tutti i piu grandi narratori di fiabe da Andersen a Grimm passando per Perrault, e che da noi è sconosciuto, abbia l'opportunità grazie al film di incontrare il pubblico. Il desiderio è sicuramente ciò che muove tutti i personaggi e mi è piaciuto ritrovare in queste fiabe certi temi, certe ossessioni dei miei film precedenti come le trasformazioni del corpo. In fondo L'imbalsamatore, la storia di un nano che si innamora di un giovane bellissimo, potrebbe essere una storia di Basile ambientata nella modernità".
La scommessa del fantasy. Per questa scommessa produttiva, giocata in prima persona su un progetto da 12 milioni di euro, Garrone ha tentato il tutto per tutto. "Ho fatto una scelta masochistica, lanciarmi in un genere che non avevo mai fatto: un fantasy con venature horror. Mi sono ispirato a Mario Bava, a certi corti di Pasolini ma anche al Pinocchio di Comencini, a L'armata Brancaleone di Monicelli e naturalmente al Trono di Spade. Anche se ho cercato in tutti i modi di fare un fantasy diverso da quello di impostazione anglosassone. Volevo che l'identità italiana e napoletana fosse forte, probabilmente l'idea giusta è stato far venire le grandi star in Italia - continua il regista - portare Salma Hayek, Cassel, Jones qui da noi piuttosto che andare da loro. Poi per me era importante che rimanesse forte l'elemento artigianale, cioé che i mostri fossero realmente sul set e non completamente in digitale. Inoltre i luoghi, dalle siciliane Gole dell'Alcantara al pugliese Castel del Monte, dovevano essere posti reali ripresi come se fossero teatri di posa".
"La lavorazione? Un inferno". "Mentre scrivevo il film ero convinto che mi sarei divertito moltissimo a girarlo - racconta Garrone - invece la lavorazione è stata un'inferno: abbiamo avuto mille difficoltà, da quella volta che l'orco ha picchiato Ceccherini a quando si è slogato una caviglia e ho dovuto prendere come controfigura un buttafuori che non gli somigliava nemmeno. Mi sono messo completamente in gioco, a partire dal linguaggio, temevo di non riuscire a padroneggiare i dialoghi in una lingua non mia, invece sul set ho sentito di avere la sensibilità per capire se qualcosa non funzionava. Ho fatto saltare i miei schemi: girare in sequenza, usare la macchina a mano... niente di quello che ero abituato a fare su un set ho fatto per Il racconto dei racconti. C'è stata un'unica giornata di lavorazione - continua il regista - in cui sono tornato a casa felice. Quando siamo andati a girare nelle Terme dei Papi di Viterbo una scena sott'acqua. C'erano i ragazzi che nuotavano e le comparse in abiti da guardia seicenteschi mentre tutt'intorno i turisti stavano immersi nei bagni. Ecco, quell'immagine mi ha ricordato il cinema che facevo all'inizio, quel misto di documentario e film di finzione, e ho avuto quella sensazione di magia che ti dà il cinema: credere che tutto è possibile".
Sotto, Sala e Odorizzi, era il Genoa fashion dei primi anni '80... ben prima di questa merda che ci propinano oggi, come fosse una roba ancora credibile a cui appassionarsi. Preziosi come un personaggio fantasy del nuovo film di Matteo Garrone! E forza Genoa!
Dalla rassegna stampa (e non solo) emerge che ieri abbiamo pubblicato la foto di Gorin con un bimbo, dopo poche ore ci ha scritto un signore che una volta era quel bimbo, eccola "Premetto che la possibilita’ di fare la mascotte per il Genoa mi fu regalata da Lino Bevilacqua, un carissimo amico (doriano) di mio papa’ che lavorava per l’allora presidente Fossati. Questi i ricordi piu’ vividi di quella giornata speciale... La mattina della domenica in questione fui assalito dal panico. Teso, preoccupato e in ansia da prestazione (nemmeno avessi dovuto giocare io...), esprimevo a mia madre preoccupazioni del tipo: “e se poi mi tirano i fumogeni”? Nello spogliatoio, dove mi avevano fatto svestire di tuta e giacca, arriva un omone. L’amico di mio papa’ che mi accompagnava, mi chiede: “Lo conosci questo signore?”. Io, che mi stavo concentrando per l’ingresso in campo (lingua felpata, mani... due spugne... ), non ne avevo la piu’ pallida idea. Era “rombo di tuono” Gigi Riva. Da quel momento in poi, ricordo pochissimo, solo dei “flash”. Il tunnel trasparente da dove uscivano i giocatori. L’erba verde, bellissima. Le maglie del Genoa, bellissime. Il pallone di cuoio. La mano di Gorin. Il sorriso di Briaschi. Ma, su tutto, i cori della Nord ed il continuo vociare proveniente dagli spalti. Scattata la foto, mi accompagnarono sugli spalti dove avrei vissuto una delle tante giornate di nervoso; in vantaggio per 1-0, venimmo raggiunti nel finale da un gol del Cagliari. Ma quella domenica, il risultato fu un po’ meno importante. Avevo vissuto la giornata piu’ emozionante della mia infanzia. Mi sentivo fortunato e speciale anche perche’, a differenza di oggi, “fare le mascotte” all’epoca non era per niente una cosa comune". Niente da aggiungere, solo applausi! Sotto, il grande Eloi. E forza Genoa!