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L'assassinio di Paul Breitner - da Un Cuore Grande Così il 29/12/2013 @ 19:02

UCCIDI PAUL BREITNER - un dialogo sovversivo (da: lacrimediborghetti.com)
Dortmund, 24 settembre 1978, un gruppo di 3 unità della Rote Armee Fraktion si sta allenando in un poligono di tiro clandestino poco fuori dalla città. Saranno sorpresi dalla polizia e uno di loro resterà a terra ucciso. Questo è l’ultimo dialogo tra due di loro, Angelika Speitel e Michael Knoll, mentre il terzo, Werner Lotze, si era allontanato per una ricognizione.

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Angelika: Ma è sicuro qui?
Michael: Sicurissimo, chi cazzo vuoi che venga a cercarci a Lüttringshausen, è un posto dimenticato da dio e dagli uomini.
A: Dagli uomini sicuramente, come la Germania. Che paese di merda… Qui a furia di voler rimuovere la propria storia, il proprio passato, hanno addirittura preferito dimenticare di esser uomini… Che schifo.
M: E’ proprio contro il rimosso che combattiamo, siamo l’avanguardia della memoria, pronti con tutti i mezzi a infilarci nel cuore e nel cervello di questo fottuto paese nazista.
A: Già, siamo lo specchio di Alice, davanti a cui i padroni e i borghesi di questa terra vedranno finalmente riflessa la loro vera immagine di gerarchi nazisti.
M: Per questo il mese scorso abbiamo rapito Hanns Martin Schleyer, fottuto esempio di come un bastardo carnefice delle SS si sia riciclato a capo della Confindustria tedesca.
A: Eh, siamo stati bravi… Ma avremmo dovuto prendere Breitner…
M: Paul Breitner, il calciatore?
A: Proprio lui, quel borghese finto rivoluzionario del cazzo.
M: Solo perché l’anno scorso è tornato in Germania a giocare con l’Eintracht Braunschweig, e chiaramente l’ha fatto solo per soldi? Perché si è fatto sponsorizzare da un’azienda di tabacco? Dai cristo, le sigarette le fumiamo tutti… Anzi, facciamo una pausa?
A: Si, aspetta un attimo che ricarico il ferro… Ecco, mica male, sei su sei a segno e tre centri, mi sento Clint Eastwood in Per un pugno di dollari.
M: Gian Maria Volonté piuttosto, che è un compagno.
A: Sì, Volonté, hai ragione… Comunque su Breitner, volevo dire…
M: Oh, senti, non mi toccare Breitner… Non mi frega niente che abbia fatto vincere alla Germania l’Europeo del 1972 o il Mondiale del 1974, segnando pure un gol, che ovviamente io non tifo per una nazionale che rappresenta un paese liberticida e assassino che affama il suo popolo. E’ che però Breitner è proprio un gran cazzo di giocatore, terzino, centrocampista attaccante: dove lo metti, gioca da dio.
A: E ha fatto vincere tutto anche al Bayern di Monaco, scudetti, la Coppa dei Campioni.. Al Bayern, capisci? La squadra dei padroni e del capitale... Senti... Non starò qui a farti una menata sul calcio come oppio dei popoli, che pure a me il calcio piace e anzi, potrebbe pure diventare una narrazione rivoluzionaria se non fosse in mano a una manica di pipparoli... Quello che mi disturba di Breitner è proprio il suo atteggiarsi a compagno quando è un lurido stronzo.
M: Dici la foto con Mao? Le storie che lui si presenta agli allenamenti con il libretto rosso, che dice di aver letto Lenin e fatto il ’68?
A: Appunto, che siccome gioca all’estrema sinistra l’estetica pop gli ha cucito addosso l’immagine di uomo di estrema sinistra. La banalità del male proprio. Che poi, e questo è il punto, non gliel’hanno mica cucita addosso, se l’è fatta fare lui dai migliori sarti di Monaco, e a caro prezzo.
M: Che sia un uomo falso non ci sono dubbi, è pure andato a giocare e a vincere per tre anni al Real Madrid, la squadra di Franco, dei fascistissimi Ultras Sur, come cazzo lo concili con il tuo essere maoista questo?
A: Si ma…
M: E poi a fine campionato, nel 1974, diceva che i soldi sono la rovina dell’uomo, e due mesi dopo, prima dei Mondiali, diceva che se in federazione non aumentavano il premio vittoria lui se ne tornava a casa e non avrebbe più giocato con la nazionale.
A: E sta zitto un po’, ho capito che quando si parla di calcio a voi maschietti vi parte subito il testosterone, ma stavo dicendo tutt’altra cosa…
M: …
A: Se la smetti di fare l’Helmut Schön della situazione, che in questo paese di merda siete tutti allenatori, dicevo, a me di Paul Breitner dà fastidio altro. Quello che odio è proprio il suo aver trasformato la controcultura in un modo di atteggiarsi, la rivoluzione in una parola da lasciar cadere in una cena elegante per far provare un brivido agli astanti e attempati signori borghesi.
M: Beh, ma dai, non è certo l’unico lui.
A: Certo, noi stessi stiamo scadendo nel ridicolo. Questa seconda generazione della Rote Armee Fraktion rischia di essere la brutta presa per il culo della prima. Già il fatto che a organizzare lo scorso anno il rapimento e l’esecuzione del banchiere Jürgen Ponto sia stata la sua figlioccia, ti dice molto sulla composizione rivoluzionaria del gruppo. Siamo diventati un gruppetto di borghesi che giocano alla guerra, non oso immaginare che farsa carnevalesca possa mai diventare un’eventuale terza generazione…
M: Ehi, ci credo che siamo la seconda generazione, la prima l’hanno sterminata… Guarda la povera Ulrike, ammazzata in cella come una cagna dopo averla condannata con prove false e averla tenuta in isolamento e in deprivazione sensoriale per anni.
A: Si certo le guardie del capitale sono sempre all’attacco, ma questo non giustifica essere diventati un gruppetto di figli di industriali che giocano a fare la guerra con i loro padri e le loro madri… Che consultassero un cazzo di psichiatra invece di arruolarsi con noi... In questo Breitner è l’esempio: lui è come noi oggi. Il comunista da esposizione nella galleria d’avanguardia pop, il finto rivoluzionario che passerà alla storia come tale, e screditerà quanto di buono fatto dagli altri.
M: Capisco cosa vuoi dire. Guarda Paolo Sollier, lui mica va giocare nella squadra di Mussolini o in quella degli Agnelli, non appare sui cartelloni pubblicitari né si atteggia sotto i poster di Mao, lui fa il calciatore perché gli piace giocare a calcio, perché è un mestiere, e perché attraverso il gioco tu puoi diffondere gli ideali rivoluzionari, e non al contrario ridurre la rivoluzione a un gioco.
A: Non mi stupirei infatti se tra qualche anno, magari al prossimo Mondiale, quando a Breitner un’azienda di dopobarba proponesse di rasarsi la barba e i basettoni in cambio di un mucchio di quattrini, lui dovesse accettare. E quando la rivolta è solo nei tuoi vestiti, quando sei nudo ti riveli per quel conservatore di merda che sei.
M: Quindi dici che dovremmo rapire Breitner, come esempio di giocatore controrivoluzionario?
A: Sarebbe il più bel messaggio possibile per sottrarre il calcio dal giogo capitalista e liberarlo nel suo potenziale rivoluzionario.
A: Merda la polizia..
M: Oh cazzo, spara, spara!
A: Giù la testa!
M: Cazzo, come cazzo ci hanno trovato!
A: Non lo so, qualcuno se l’è cantata. Sbirri bastardi, spara, spara, sparaaaaa…
M: Cazzo Angelika mi hanno preso… Mi hanno preso..
A: Michaaaaaael!
M: Scappa, Angelika ammazzali tutti e scappa, cazzo.
A: Michael no ti prego... Michael resisti... Non andartene ti prego, cazzo Michael... Non andar-te-ne…
M: N-non ce la faccio…
A: Michael…
M: Angelika, non ce la faccio… Salvati, e fammi l'ultimo favore… Uccidi Paul Breitner…

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Everton, Liverpool - da Un Cuore Grande Così il 23/11/2013 @ 16:23

Everton-Liverpool, il derby dei Beatles. Everton o Liverpool? A George non gliene fregava granché. “A Liverpool ci sono tre squadre, io tifo per l’altra”. La terza erano loro. I Beatles (da: repubblica.it).
Harrison amava le automobili e la Formula uno, al calcio semmai era più legato John. Il suo papà era stato tifoso dei Reds, lui da ragazzino – a 11 anni – aveva disegnato su un foglio un’azione della finale di Coppa d’Inghilterra fra Arsenal e Newcastle (1952), per farne anni dopo la copertina di Walls & Bridges. Era un omaggio a Jackie Milburn, pare, il Wor Jackie con il nove in bianconero dietro la schiena. Nove, numero cui Lennon finì per legarsi, come si deduce dalle canzoni Revolution 9, The One After 909 e #9 Dream. Alla mitologia pallonara di Anfield, John si rivolse quando inserì il nome del grande manager Matt Busby in Dig it, una cantilena sulla lettera B. Così come pare fosse stata sua l’idea di ritrarre sulla copertina dell’album Sgt. Pepper il volto di Albert Stubbins, centravanti del Liverpool fine anni 40-inizio anni ‘50, piazzato fra Marlene Dietrich e Lewis Carroll. Gli piaceva il nome, si disse così.
La ricostruzione del tifo dei Beatles è uno zigzag fra le incertezze. Si raccontava che fosse del Liverpool anche Ringo Starr, non tanto per testimonianze dirette sulla sua fede calcistica, anzi, ci sono sospetti che eventualmente lo spingono verso l’Arsenal; quanto perché i suoi figli hanno poi avuto una tessera ad Anfield Road. Infine Paul, altro bel dilemma. Era in tribuna a Wembley per la finale di Coppa d’Inghilterra del ‘68, l’Everton in campo, battuto dal West Bromwich Albion. I suoi in famiglia erano schierati. Ma anni dopo, quando in Europa dominava il Liverpool, Linda si fece sfuggire che a casa facevano il tifo per i Reds davanti alla tv bevendo vino. Circostanza questa che a pensarci bene potrebbe rafforzare la tesi dei complottisti, il vero Paul è morto, la sua vita è vissuta da un sosia, eccetera eccetera. D’altra parte, Paul ci mette del suo per confonderci le idee. Quando Rafa Benítez portò il Liverpool di nuovo fino in fondo, McCartney diede un’intervista a Radio Merseyside: “È vero che tifo Everton, ma ho la dispensa papale. Della questione cattolici-protestanti non me ne importa niente e ho appena conosciuto Dalglish, perciò se il Liverpool va in finale di Champions io tifo per la squadra della mia città”. Non proprio un’uscita da evertonian puro, ecco.
Si è sbilanciato nel tempo il solo Pete Best, batterista prima dell’arrivo di Ringo. Quattro anni fa raccontò in un’intervista che John era il più appassionato di tutti nel giocare a calcio durante le pause delle prove. E ammise: “A me, fin da bambino, dissero che la mia squadra doveva essere quella vestita di blu”. L’Everton. Fine della storia.
Di più non si sa. Inutile chiedersi veramente chi stava di qua e chi di là, oggi che Everton e Liverpool tornano ad affrontarsi in campionato. Il solo che abbia davvero vinto il derby in città, a questo punto resta Brian Epstein, il manager che ai quattro impose di non parlare mai di calcio in pubblico. Per non dividere i fan. Un genio. E noi qui, ancora oggi, a chiederci per chi facessero il tifo i Beatles.

Sotto, il disegno di Lennon del 1952

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Caro Vecchio Balordo - da Un Cuore Grande Così il 19/11/2013 @ 10:56

Bentornato, caro Vecchio Balordo di Gianni Brera. (per la promozione 1988/89)
L'ultima volta che fummo promossi andammo Gino Traverso ed io a vedere la sfilata in Via XX Settembre. In testa erano 4 genoani a cavallo. Avanzavano impettiti, tirando le redini perchè non avessero a sveltire troppo il passo. Gino Traverso è della gens ligure degli Statelli ed io dei Laevi. Lui indulge alla coccina, che mi è vietata dal pudore. Assistere solo al passaggio di quel festoso corteo era da liguri schietti, troppo avvezzi a biascicare storia per venirne in qualche modo contagiati. A me commossero fino al groppo i quattro mattocchi a cavallo. Su di loro ondeggiava un gonfalone. Sentii rivivere allora nella memoria biostorica del mio sangue l'amore disperato dei liguri per i cavalli: ce lo siamo portati dietro costeggiando il Mediterraneo da Sud: ci siamo chiamati Lybui Arii, Berberi, Iberi, Liguri... Il mio sorriso è drasticamente mutato a neppure 6 anni, quando una cavallina da me carnalmente amata alzò capricciosa il treno posteriore e di sinistro mi ruppe setto nasale e mandibola. Era sferrata, aveva pochi mesi. Fosse stato il contrario non avrei tifato Genoa. Perchè a neppure 6 anni sapevo di Barbieri e De Vecchi, Levratto e De Prà. In una figurina, Levratto a braccia larghe, orizzontali, cercava equilibrio sul piede di appoggio, il destro, per esplodere la bombarda del sinistro. Palleggiando, anch'io levavo le mani per vezzo, non dovevo preoccuparmi di coordinazione, anzi, la compromettevo con quella posa innaturale, ma chissà quanto ha influito la figurina di Levratto sul mio stile, non malvagio, di pedatore!
Cresciuto di statura e di anni, riflettei sul tifo e mi ritenni contagiato per amor miei. Altri s'illudono di amare la patria starnazzando per un'entrata del Figlio di Dio: amano se medesimi. Si pongono al centro dell'universo e vogliono farti credere di non considerarsi altri che un minuscolo granello nel pianeta dei padri. Poi s'inventano sofferenze intime dovute al mancato tiro a volo del centravanti; s'indignano altamente per l'intervento bizzarro d'un arbitro ostile; esprimono incontenibile odio per il meteco venuto di fuorivia a tifare contro la tua squadra del cuore. Sono possibili anche rigurgiti di storia penosamente sofferta a nostro danno.
Giovanni De Prà mi racconta come abbia fatto Giovanni Mauro, il famoso maneggione dei fischietti europei, a fregare solennemente il Genoa nel 1925. Voleva ingraziarsi Arpinati, gran gerarca bolognese, e favorì spudoratamente il Bologna. Gli incontri furono 5, come neanche obbidessero a una norma di play-off, e culminarono in una svegliataccia di luglio. Il campo era neutro fino al dispetto: quello della Forza e Coraggio a Porta Vigentina a Milano. I genoani erano alla nausea da pallone. Non pochi di loro avevano smesso di allenarsi nella canicola. Quel dannato mattino, davanti a nessuno, subirono il trionfante Bologna. Giovanni De Prà si considerava derubato a distanza di mezzo secolo.
Sento dire adesso che qualcuno vorrebbe gabbellare il Genoa per una vittima del fascismo e chiedere la solenne restituzione di uno scudetto rubato con l'inganno. Penso a Mario Gerbi che s'illudeva di fare altrettanto per il Torino, privato dello scudetto clamorosamente revocato nel 1927. Allemandi, con qualche complice, aveva venduto il derby della Juventus. La punizione che aveva uccellato Combi era passato tra le gambe di Rosetta Virginio in barriera. L'inghippo era aggallato perchè Allemandi si era fatto sentire protestare con il dirigente torinista che gli aveva promesso 5.000 lire mollando il solo anticipo, inferiore alla metà. Uno studente giornalista aveva pubblicato la notizia sul settimanale romano "Il tifone". Lo scandalo fu enorme. La Juve plaudì alla squalifica di Allemandi ma non ne chiese altre, il Vercellese Rosetta le era costato, 2 anni prima, qualcosa come 50.000 lire. Mia sorella maestra aveva uno stipendio mensile inferiore alle 400. Le cose del calcio italiano furono sempre abnormi. Il Genoa venne mortificato nel '25 e impedì al presidente Arpinati di assegnare al suo Bologna lo scudetto del '27. Pare - e forse è vero - che tutto si paghi su questa bassa terra. Ma intanto i genoani si erano accorti che il mondo andava a rovescio, che le palanche necessarie erano troppe e che il primato pedatorio non giustificava sacrifici possibili alle sole classi ricche.
I milanesi avevano già scontato questo andazzo vedendo allontanarsi i Pirelli, i Borletti e quanti altri avevano pedalato da pionieri facendo i mecenati di se medesimi. I genovesi sapevano da un pezzo che la pedata non qualificava socialmente. Non si trovavano nobili tra i pionieri di Ponte Carrega. Qualche inglese di onorata professione, qualche borghese indigeno che secondava la vanità di mostrarsi in possesso di plus-calore. Gli agiografi ricorrono all'iperbole, affermando che gli inglesi (i fondatori) accettavano solo gente che fosse disposta a giocare in redingote. Pensate che balla. Però borghesi bisognava essere, non camalli. L'inglese era parlato da quanti avevano scagnu e avviati commerci con la Gran Bretagna. Ma anche quelli si tolsero in disparte, quando la democrazia e il progresso consentirono Santa Bistecca ai petits bourgeois. I nobili, i grossi ricchi, quelli non vollero mai sentir parlare di piedi riabilitati a mani posteriori, capaci di giochizie raffinate a favor della Lanterna. L'orgoglio dei genovesi è inenarrabile: ne furono degni gli svizzeri Pasteur, fedeli alla propria memoria ed ai rimpianti. Quando il Genoa tornò così forte da vincere, nel '29-30, subì l'apparizione di Pepp Meazza nell'Inter e soprattutto il crollo delle tribune lignee al campo miserello di Via Goldoni. Questo crollo consentì alla gente di sedere lungo le linee dell'out e quelle di fondo. L'arbitro fu eroico nel concedere un rigore al Genoa sul 3-3, non lo fu Banchero nel buttarlo fuori. Il pareggio (3 gol Levratto, 3 gol Meazza) bastava all'Inter per proclamarsi campione. Sui giornali, pietosi silenzi. Io avevo da poco compiuto i 10 anni, non avevo tribune. Penso al casini che avrei inscenato se avessi potuto assistere a quello scempio e poi dovuto scriverne su per i giornali. Le vie della Provvidenza sono infinite. A Milano, magari, avrei perduto il posto, o mi avrebbero tolto la tessera del partito. Ancora e sempre mortificato, il Genoa scontò la superbia dei suoi ricordi. Quante umiliazioni al giovane bassaiolo contagiato di tifo genoano! Batoste a San Siro (dal carneade Milan), batoste all'Arena (dall'Inter capricciosa e beneamata). Anche la serie B a temprarmi lo spirito. Poi Bertoni il grande, olimpionico a Berlino. Lo prendiamo dal Pisa, ed è il giusto mezzo tra l'elegante e fin troppo misurato Meazza e il prepotente ma rozzo Piola. Mi esalto a vederlo giostrare con il piglio del campione. "Scerte ramaiolate!", mi ricordava un compagno pisano, ancor fiero di lui; e intendeva i tiri a volo che Bertoni osava e azzeccava sui cross dalle estreme.
Garbutt impostò il nuovo Genoa a WM. Era tutto più veloce ma anche più largo, i ritmi erano saliti di troppo per non provare gente accarezzata o battuta dal clima folle della Riviera. Io ero giovane e Garbutt troppo vecchio. Fu regolare scoppiatura. Con l'aggravante di Pozzo C.T. in odio al genoano che gli aveva strappato, in tribuna a Marassi, una manciata di candidi capelli, Pozzo sapeva vendicarsi secondo vezzi davvero elefantiaci. A dimostrare incongruo il WM inglese, ecco l'incolpevole Genoa di Berlino 1939; i tedeschi si erano uniti all'Austria, l'Anschluss ci tornò fatale. Pozzo non capì più nulla da quel gramo giorno. I nostri 9 scudetti vennero sventolati come un pavese di Cristoforo Colombo nella brezza di Palos. E ora siamo tornati a quei momenti insigni. Io ripeto le veglie con Giovanni De Prà, vinigiano con tanto di Meloria dalla sua, nessuno riusciva a divertirmi quanto lui.
Il racconto più epico e spassoso risale all'anno in cui il Genoa fece la traversata per giocare in Argentina; il primo incontro ebbe luogo con la nazionale: battè il calcio di avvio un ministro in carica che lanciò senza esitare l'ala sinistra, quella partì a razzo e Giovanni diceva: "Ma che, è matto?" se lo era, non sapeva di esserlo, e fece gol. Allora i genoani, incazzati come draghi, cavarono fuori l'antico orgoglio e la nazionale argentina dovette accontentarsi di un fasullissimo 1-1. Nessun ministro in carica aveva mandato al gol l'attaccante genoano!
Giovanni De Prà era eroico e bravo come Planicka, di cui ripeteva la statura, davvero trascurabile per un portiere: 1,73. "Però io - precisava Giovanni - avevo le braccia lunghissime, che bastava mi mettessi in punta di piedi per toccare la traversa". Non so quale genoano di fede mi abbia confessato di non andare più allo stadio da quando è tornato in patria il povero Verdeal; lo stesso Gino Traverso mi ha confidato di avere sdegnato Marassi la domenica in cui avrebbe dovuto assistere all'incontro del Genoa con il Pontassieve. Roberto Lerici strizza le palpebre sugli occhi adusati e sorride fiducioso.
Franco Scoglio mi manda i suoi saluti di giovane professore ISEF: nella tesi di laurea mi ha citato (ha detto a Giovannino Mura). Mesi prima aveva strabiliato Franco Rossi rivelandogli di aver inventato il "pressing eolico". Perchè eolico? Perchè Lipari, sua patria, è una delle isole Eolie. Ma Franco Scoglio porta il Genoa in serie A e può raccontare tutto quanto gli passa per la capa. Aldo Spinelli porta il Genoa in serie A dopo aver assunto Scoglio e sta battendosi ora per metter su una squadra degna delle mie ambizioni. Io non ho più il coraggio di annunciare speranze: in oltre 60 anni ho imparato che menano gramo.
Dico solo: "Bentornato, caro Vecchio Balordo". E sto su allegro ma non lo confido a nessuno.

Sotto, coppia di altissimo livello culturale, Gianni Brera è con Mario Soldati

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Andare allo stadio? Impresa epica! - da Un Cuore Grande Così il 18/11/2013 @ 00:00

Modena-Carpi, derby dell’assurdo: selva di regole per i tifosi e lo stadio resta vuoto (da: ilfattoquotidiano.it). Per il match di domenica, la questura ha dettato criteri diversi per tifosi del Carpi residenti a Carpi, tifosi del Modena residenti a Modena, tifosi del Modena residenti a Carpi, tifosi del Carpi residenti a Modena... e così via. Così su 21mila posti se ne riempiono solo 6mila. La protesta di Abodi, presidente della Lega di serie B.
È una commedia dell’assurdo il piano deciso dalla Questura di Modena per evitare che il derby di serie B tra Modena e Carpi possa provocare incidenti tra le due tifoserie. I supporter che volevano assistere alla partita, in programma domenica alle 12.30, sono stati divisi in 6 (sei!!) categorie, per le quali sono state previste regole e settori diversi: i tifosi del Carpi residenti a Carpi, i tifosi del Modena residenti a Modena, i tifosi del Modena residenti a Carpi, i tifosi del Carpi residenti a Modena, i tifosi del Modena che non risiedono né nel capoluogo né a Carpi e i tifosi del Carpi non residenti né a Carpi né a Modena. Un labirinto di restrizioni che ha spinto tanti, soprattutti carpigiani, a non presentarsi allo stadio Braglia. Oltre ai 2.600 abbonati, il Modena ha staccato poco più di 3mila biglietti mentre i tagliandi prenotati dai tifosi del Carpi sono stati appena 450. Pochissimi, rispetto alle presenze ospiti registrate nei derby degli anni ‘90, quando 2mila tifosi biancorossi coprivano i 20 chilometri che separano la cittadina emiliana dal capoluogo.
A rendere ulteriormente ingarbugliata la situazione, la distinzione tra tifosi ospiti con e senza tessera del tifoso. I tesserati dovevano obbligatoriamente raggiungere lo stadio Braglia con mezzi propri; mentre i 243 carpigiani senza tessera che hanno deciso di comprare il tagliando potevano arrivare allo stadio solo con i pullman, viaggiando con steward a bordo e scortati dalle forze dell’ordine. Per le disposizioni giunte dalla Questura non potevano assistere alla partita nel settore ospiti, ma paradossalmente potevano farlo nella curva modenese. Risultato: per un derby che manca dalla stagione 1998/99 si sono contati circa 6mila persone in uno stadio da 21mila posti. E pensare che la partita sarebbe dovuta essere la festa dell’unica provincia italiana con due squadre in serie B, una situazione vista recentemente nella serie cadetta solo con Atalanta-Albinoleffe e Padova-Cittadella.
“Stiamo pericolosamente scivolando dalla cautela all’allarmismo”, dice a ilfattoquotidiano il presidente della Lega di serie B Andrea Abodi. “Se militarizziamo gli impianti e rendiamo la vita difficile a chi vuole assistere a una partita – spiega – tradiamo il nostro principale obbiettivo: riempire gli stadi e allo stesso tempo renderli sicuri. Se le regole sono quelle applicate per Modena-Carpi, fermo restando il dovuto rispetto dei ruoli, la Lega non può accettare passivamente”. Hanno preferito non commentare, invece, le due società, mentre è stato duro il comunicato degli ultras del Carpi: “E’ una vergogna! Ci saremo perché il derby ci manca da 15 anni. Ma lo faremo malvolentieri – scrivono – perché riteniamo davvero insensato lo stato delle cose che è maturato. Ci vogliono far stare a casa ma stavolta diciamo no. Non è Boca-Rivers, non è una guerra”.
Le reazioni dei tifosi alla gimkana per acquistare il biglietto scorrono ironiche su Facebook: “Ci vuole un matematico o un ingegnere”, “Mi aspettavo una scissione anche tra i civici pari e dispari”, “Chissà che casino se uno è di Campogalliano!”, scrive un modenese riferendosi a ipotetici tifosi residenti nel paese che sorge esattamente a metà strada tra Modena e Carpi. Poi la puntura: “Non sia mai che ci sia un po’ più di gente allo stadio, complichiamo sempre la vita”.

Sotto, Wembley nel 1930, altro calcio, altri tempi, nessuna tessera.

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La strana giornata di Juan Carlos Verdeal - da Un Cuore Grande Così il 15/11/2013 @ 10:49

Via del Piano… S.Gottardo… Ponte Carrega… non è un “Triangolo delle Bermuda”, ma è il perimetro che contiene infinite storie rossoblu. Se ci cadi dentro qualcosa trovi sempre, come se il tempo fosse uno speciale Genoa-Store che non espone sciarpe o felpe, ma le cellule staminali della memoria. L’altro giorno, portando a spasso la mia malinconia, ho frugato in quella cambusa self-service e nello “scaffale 1946” ho ritrovato una favola vera, forse abbellita da qualche ricamo, ma che val la pena di raccontare perché è a lieto fine… un optional di cui oggi c’è molto bisogno. (da: grifoni.org di Nemesis).
Juan Carlos Verdeal, la cui mamma italiana si chiamava Carmen Rosso (con la “o”, mi raccomando), tirava calci in Patagonia ma, un po’ per il vento impetuoso e un po’ per la dinamite nei piedi, il pallone gli finiva sempre in Brasile, e allora pensò che valesse la pena trasferirsi là. Giocò nel Fluminense, nella Juventude S.Paolo, poi si trasferì a Caracas, dove raccontano ci siano i “peggiori bar”, ma solo perché non hanno visto quelli sotto casa mia. Faceva mirabilie nel Dos Caminos e fu notato da un amico del Genoa, che non a caso si chiamava Magnifico, anche se il nome era Ugo e non Lorenzo.
Se Stabile era sbarcato dal Conte Rosso tra la folla in delirio, Verdeal viaggiò sul più modesto Vulcania e ad accoglierlo, invece dei Grifoni, trovò solo uno stormo di gabbiani distratti. Pagato 600 mila lire arrivò a Genova ma, prima della firma sul contratto, c’era una piccola formalità da verificare: era davvero un campione o uno dei soliti pacchi che, a parte “el filtrador”, il Sudamerica ci rifilava? Con Youtube “momentaneamente” fuori uso, e usando il noto antivirus locale chiamato “diffidenza”, c’era un solo modo per scoprirlo: vederlo all’opera. Per quello strano esame di maturità fu allestita una commissione straordinaria, e mentre Garbutt e De Prà lo interrogavano sul campo, Tosi e Ghiorzi preparavano in Sede la pergamena del diploma. Sì, proprio lui, Mister Garbutt per la quarta volta sulla panchina rossoblu, appena richiamato e già scalpitante come lo era nel 1912, quando si trapiantò un Grifo nel cuore e non bastarono due guerre a scucirglielo.
Era agosto, un caldo bestiale che tramortiva i ritmi della vita, e il custode del Ferraris cercava refrigerio innaffiando l’ombra della tribuna sul prato, quando un’improvvisa telefonata proveniente da Marte gli scombussolò la pigra routine. “Traccia le righe sotto la Nord, arriviamo tra poco”. Provò a chiedere spiegazioni, e la risposta fu chiarissima: “click”. Alle 11 il taxi partì da De Ferrari e Verdeal, dal finestrino, ammirava i sontuosi palazzi di Via XX Settembre feriti dalle bombe, ma non riuscì a scorgere il mare, che da qualche parte doveva pur esserci; tuttavia, svoltando a Brignole verso Marassi, riuscì a percepirne il profumo, così simile a quello di Puerto Madryn, la sua bella città fondata dagli immigrati Gallesi. I tre personaggi in cerca di autore entrarono nello stadio deserto, ma un autore con i fiocchi lo trovarono per davvero: avvertito da chissà chi, il sublime aedo Edilio Pesce era lì ad aspettarli con il suo blocco notes, e proprio grazie a quegli appunti è possibile raccontare questa favola. Verdeal aveva con sé l’inseparabile “borsa dei ferri”, e chissà quali carabattole si era portato dietro dall’altro emisfero; ma quando tirò fuori un vecchio paio di scarpe scalcinate, e pretese di usare quelle, Garbutt e De Prà si scambiarono un cenno d’intesa, perché nel codice dei calciatori era un segno di “classe”.
Garbutt in maniche di camicia, ignorando i suoi 63 anni, crossava come se ancora vestisse la casacca dell’Arsenal; sembrava un ragazzino, e perfino la griglia di rughe che gli incideva il volto si allentò in un sorriso. De Prà in pantaloncini nella sua vecchia porta, che lui sentiva un po’ come l’uscio di casa, studiava le sapienti traiettorie che bussavano per entrare, ma soprattutto scrutava il modo in cui quel diavolo colpiva la palla. Verdeal, appostato ai limiti dell’area, sembrava un ambulante che espone la sua merce, con eleganza e sobrietà e senza gli inutili svolazzi per le allodole di turno. La Gradinata deserta assisteva muta all’evento ma, per una misteriosa alchimia telepatica, sussultava a ogni bordata. Ci fu una serie di tiri al volo, di destro e di sinistro, e le movenze armoniose trasformavano ogni gesto in un progetto, che di lì a poco si realizzava. Garbutt passò poi ai lanci rasoterra, e la grazia di Verdeal rispose accarezzando il pallone, che obbedendo alle coccole si torceva negli effetti più inattesi. Dopo la fiera di tutti gli stop possibili e immaginabili... di piede, di petto, di coscia, a seguire e a rientrare, Garbutt ebbe un’idea maliziosa: calciò un campanile esagerato e il pallone, in viaggio verso il cielo, provocò un' eclissi breve quanto un battito di ciglia; poi ricadde dritto sul giocatore che l’aspettava, per azzerargli la gravità. Fu questione di un momento: Verdeal se lo incollò al piede e lo posò sull'erba con una semplicità disarmante, così diversa dal male incurabile degli attuali “stop a inseguire”. Il caldo infieriva ma il programma si avviava ormai all’epilogo, mancava solo la raffica dei rigori per fortuna senza i supplementari: gli esami erano finiti e i tre si sentivano sfiniti. Perfino il pallone sembrava esausto, ma le cuciture del cuoio avevano disegnato una faccina che ride, rivelando così ai presenti quanto avesse gradito quei calci così garbati. Non servivano molte parole per ratificare il test, bastavano gli sguardi, e fu così che cominciò il film di una carriera da Oscar: “ciak, buona la prima”. E mentre Verdeal allentava i lacci dei suoi stanchi attrezzi, De Prà corse nello spogliatoio per telefonare in Sede a Ghiorzi e Tosi, pronti con il colpo in canna: "tutto bene, preparate il contratto, abbiamo il fuoriclasse".
Anche il custode del Ferraris, che pure ne aveva visti passare tanti, sentiva in cuor suo che questo era diverso, e si sbilanciò in un promettente “arrivederci”. Verdeal fu un campione vero, forse il più grande della storia rossoblu, e dove non arrivarono le sue prodezze ci pensò la fantasia dei tifosi ad alimentare la leggenda. Ancora oggi c’è chi racconta che, dopo un suo lancio di 60 metri, sia giunto lui stesso a ricevere la palla e a metterla in goal: le solite esagerazioni… forse i metri erano solo 50. Gambe lunghissime, esaltate dai pantaloncini che la moda voleva attillati; fisico asciutto ma armonioso, longilineo ma agile, fuggiva palla al piede e le sue movenze abbattevano i birilli sconcertati. Claudio G.Fava lo descrive con un tocco di poesia: “una maglia rossoblu che ondeggiava al Ferraris come una spiga di grano”. Serio, riservato, lettore accanito, parlava quattro lingue; divenne allenatore ma a soli 50 anni chiuse con il calcio, e quando guardava una partita in Tv azzerava l’audio per non farsi influenzare dal cronista. Nel 1976 i suoi tifosi, che oggi chiameremmo “vedove”, lo invitarono a Genova e rimase stupito di quanto il suo ricordo avesse resistito al tempo; commosso ed emozionato, sventolando la sciarpa rossoblu, corse verso la Nord con il cuore in tumulto. Ancora per molti anni lo speaker, fra un “orario Bulova” e un “mio nonno vestiva da Mauri”, avrebbe continuato a leggere il telegramma di auguri che Verdeal inviava da Rio prima di una partita importante. Quando poi nel 1999 arrivò lassù al terzo piano, stupì tutti per la sfolgorante cravatta rossoblu che portava, e che aveva preteso per l’ultimo viaggio. Garbutt e De Prà lo riconobbero subito per l’eleganza del portamento, e lo vollero con loro tra i grandi. Ma c’è di più. Gira voce che ogni tanto si facciano una partitella all’americana, con De Prà in porta, Garbutt a dettare i tempi e Verdeal a calciare un rigore ogni tre corner. E allora perfino l’arbitro, notoriamente severo ma imparziale, si ferma compiaciuto a guardarli e chissà che un giorno, da Signore qual è, in qualche modo e con altre sembianze non ce li restituisca.
Al limite, anche in prestito con diritto di riscatto per la metà.

Sotto, ritaglio de La Stampa del 4 maggio 1947, il Genoa gioca a Roma contro la Lazio, finì 1-1.

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Salernitana - Nocerina altri punti di vista - da Un Cuore Grande Così il 11/11/2013 @ 18:08

(da: sportpeople.net) Visto che tanto buona parte della rassegna stampa verrà, nostro malgrado, presa dal solito calderone del linciaggio mediatico, tanto vale cominciare a sentire una voce contro, che arriva, ovviamente, da Nocera Inferiore. Ma, si badi bene, non è il sito degli ultras a parlare, ma il sito forzanocerina.it, regolarmente registrato presso il Tribunale di Nocera Inferiore. Credo che ad una voce del genere, si di parte ma sicuramente giornalistica, bisognerebbe prestare attenzione. In attesa che poi le indagini facciano il loro corso. Personalmente, la sicurezza che i media nazionali abbiano subito fiutato la preda, senza un minimo di conferma della notizia e senza fonti sicure, è tanta. Comunque, fino a prova contraria, la tifoseria rossonera è innocente. Quindi, finché tali prove non si hanno, sarebbe bene fare silenzio.
Salernitana-Nocerina è una partita destinata a far discutere. Lo sta già facendo a poche ore dalla triplice fischio di una partita durata appena venti minuti ma l’impressione è che la caccia allo scoop dei principali organi di informazione nazionali sia appena iniziata. I tifosi che avrebbero “minacciato di morte” i calciatori per impedirgli di giocare la partita regolarmente è una notizia troppo ghiotta per lasciarsela scappare, che poi sia vera o frutto di fantasia o meglio ancora una distorsione mediatica della realtà poco importa.
Noi questa mattina all’esterno del San Severino Park Hotel c’eravamo e possiamo assicurarvi che nessuno ha minacciato di morte nessuno. È stato semplicemente chiesto al mister e alla squadra un gesto eclatante, che facesse parlare l’Italia intera, un gesto che desse voce all’ingiustizia subita dai tifosi molossi a cui preventivamente e senza alcuna prova d’appello, è stata negata la trasferta dell’Arechi.
Tutti tifosi, è bene ricordarlo, muniti della “tessera del tifoso” e quindi con il totale e sacrosanto diritto di assistere a questa partita. I calciatori hanno accettato, indossando di loro spontanea volontà una maglietta al loro ingresso in campo che recava la scritta “RISPETTO PER NOCERA” su fondo bianco, il resto è cronaca.
Le motivazioni di quanto accaduto oggi allora vanno cercate altrove, sicuramente non fra i tifosi della Nocerina o della Salernitana che contemporaneamente protestavano per la stessa ragione. Perché quelli all’esterno dell’Arechi che esplodevano qualche petardo e intonavano cori contro la tessera del tifoso prima dell’inizio della gara erano i tifosi granata e non quelli rossoneri che a Salerno non ci sono mai andati, capito mamma RAI?
Probabilmente, e su questo siamo d’accordo con il Questore De Iesu, non bisognava proprio arrivarci a questo punto, gironi diversi e tutto sarebbe filato liscio. Atto estremo? Atteggiamento da Ponzio Pilato? È probabile ma se poi dobbiamo ascoltare i padroni del vapore Macalli e Ghirelli dichiarare a più riprese che se fosse stato per loro, Salernitana-Nocerina si sarebbe giocata a Bolzano, lontano da tutto e tutti e che la Lega si costituirà parte civile, beh, scusateci, ma noi non ci stiamo. Da quale pulpito viene la predica, quello di chi, non più tardi di qualche mese fa, hanno preferito chiudere un occhio pur di non rinunciare a qualche biglietto venduto in più e alla visibilità che solo il tanto vituperato sud riesce a dare con il suo calore, il suo tifo e la sua passione all’assurdo campionato messo in scena quest’anno, e ora grida allo scandalo. Perchè se quest’estate, in barba agli “alert” dell’Osservatorio, si è deciso diversamente allora è giusto che ognuno, per quanto di competenza, si assuma le proprie responsabilità.
Se si è deciso diversamente Salernitana-Nocerina si sarebbe dovuta giocare perché le condizioni di sicurezza e di posizione dell’impianto salernitano garantiscono la disputa di tutte le gare, perché l’hanno sempre fatto in occasione delle gare con Napoli, Verona, Cavese e tante altre e non si vede il motivo per cui non avrebbe dovuto farlo anche oggi. E soprattutto perché se limiti in qualche modo le partite allo stadio Arechi si dovrebbe farlo in quasi tutti gli stadi d’Italia, quantomeno in quasi tutti quelli di terza serie.
Questa è la verità, la nostra verità, la verità di quelli che hanno assistito, la verità di quelli che c’erano.

Sotto, il faccia a faccia tifosi/giocatori della Nocerina prima della gara

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Comunicato ultras Nocera Inferiore.
Oggi non parliamo né a nome degli ultras né a nome della nostra Curva Sud perche’ oggi parliamo a nome di una città , la nostra città , perché’ è la nostra città ad essere stata discriminata dal divieto di recarsi allo stadio Arechi ed è il nome dei Nocerini che ora dalla stampa nazionale viene additato come violento teppista terrorista e mafioso.
Noi non abbiamo minacciato nessun tesserato, anzi abbiamo semplicemente chiesto al nostro mister e ai nostri ragazzi dopo una serie di pacifici incontri che con un gesto eclatante, che facesse parlare l’Italia e che scuotesse il sistema, si desse voce all’ingiustizia subita. Un atto di solidarietà, una protesta civile, visto che se avremmo voluto essere davvero violenti ci saremmo recati a Salerno malgrado il divieto. E a tutti gli organi di informazione che invece sostengono il contrario li esortiamo a chiedere direttamente ai tesserati della Nocerina calcio, dalla quale ci aspettiamo come minimo un comunicato che sgombri da ogni ombra e dubbio , le accuse che oggi ci vengono gettate addosso. Purtroppo è più facile gettare fango sugli ultras piuttosto che accettare una scomoda verità, quella che una città abbandonata da ogni difesa delle proprie istituzioni ha trovato protezione ai propri calpestati diritti solo in undici ragazzotti forestieri ma che da oggi diventano immensamente grandi e Nocerini a tutti gli effetti per quello che hanno fatto. Chiedetelo a loro se sono stati minacciati, visionate i filmati e vedete se si è trattato di minacce o semplicemente di un sentimento comune di rivalsa da un evidente torto subito. Mai come questa volta gli ultras non siedono al banco degli imputati perché’ questo posto stavolta spetta di diritto al questore ed al prefetto e a tutti coloro che hanno cosi pessimamente gestito questa vicenda, facendo questo clamoroso autogol, vietando soltanto agli ospiti qualcosa che ci era garantita dalla tessera del tifoso. E’ nostra intenzione perciò che emerga soltanto la verità, perché è una verità che darebbe soltanto onore alla nostra voglia di difendere il nome della nostra città, e che darebbe soltanto onore ai nostri undici molossi che non hanno agito così per paura , ma hanno agito cosi per dimostrare che la vera farsa era non avere il sostegno del proprio pubblico alle spalle.
Oggi leggiamo da più parti che lo sport è morto, niente di più falso , perché’ oggi lo sport si è fatto carico di difendere i diritti di chi è stato penalizzato da una palese ingiustizia ed è andato contro a quello stesso sistema che quella ingiustizia aveva prodotto.
Onore alla Nocerina. Onore ai Nocerini !!!!

Genoani - da Un Cuore Grande Così il 08/11/2013 @ 12:13

Dal profilo facebook di Roberto Scotto:
IL DODICESIMO GRIFONE
.. Chi mi conosce e legge i miei post sa già che l'angoscia più grossa in questi ultimi anni era vedere chiunque venisse al Ferraris portare via il risultato con una facilità estrema.. quasi senza sforzi a volte (vedi il Chievo lo scorso anno), ero e resto convinto che al di là dei demeriti della squadra e degli allenatori, dei dirigenti e di chi li sceglie, ci fosse anche una componente ambientale che non era da noi, certo i fatti di Genoa Siena avevano portato scorie, e la mancata difesa da parte di tutti dei ragazzi diffidati creato una frattura, e devo dire che sanare questa frattura non è stato facile, ma per nostra fortuna quello che prevale sempre fra noi è il bene del Genoa, e così, grazie ai giovani dei gruppi della Nord, ai vecchi che li hanno aiutati, la NORD finalmente è tornata ad essere il DODICESIMO GRIFONE, e i risultati li vedremo alla lunga, siamo solo all'inizio.. ma il nostro TEMPIO è tornato a far tremare le gambe degli avversari, il fattore ambientale è stato ripristinato, il tempo delle gite a Genova è finito, qualche giorno fa scrissi che chi mugugnava ogni volta che Perin toccava il pallone se voleva la nutella poteva andare a BOGLIASCO (ma dalle ultime notizie pare esaurita anche lì) e ora faccio lo stesso discorso per LODI.. se giocherà andrà sostenuto fino alla fine, se no siamo noi che diamo vantaggio all'avversario.. e non deve più succedere!
Il FERRARIS e' la tana del Grifone! e qualunque avversario che ci entri dovrà guardarsi dalle MIGLIAIA di Grifoni che giocheranno la partita al fianco della nostra squadra...
FINO ALL'ULTIMO UOMO!........... Roby

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Associazione Club Genoani - «Presidente Berogno e direttivo NON sono dimissionari»
Riteniamo importante precisare che, contrariamente a quanto diffuso da alcuni organi d'informazione locale, il Presidente Leonardo Berogno e parte dell'attuale Direttivo non sono dimissionari, solamente non intendono riproporre la loro candidatura alle prossime elezioni direttive dell'A.C.G. che si terranno nel mese di Febbraio p.v.
Ciò ribadito per assicurare che l'operatività del Presidente e del Consiglio tutto sarà totale per traghettare l'A.C.G. fino alla fine della stagione calcistica in corso alla luce oltrettutto delle varie iniziative in essere come ad esempio il “Progetto Scuola”.

Sotto, il simbolo del Mito dal 1973 al 1993

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Comunicato Gazzetta da paura: voto 8,6 - da Un Cuore Grande Così il 07/11/2013 @ 07:41

La Gazzetta sciopera per due giorni. I motivi della scelta dei giornalisti. La Rcs decide di svendere la sede storica di via Solferino, ennesima operazione discutibile. Lo scandalo Recoletos e le altre mosse finanziarie che stanno portando al disfacimento una importante azienda editoriale (da: gazzetta.it).
Domani e venerdì la Gazzetta dello Sport non sarà in edicola e il suo sito dalla mezzanotte di mercoledì non verrà aggiornato. La redazione ha deciso di scioperare di fronte all'ennesimo episodio di mala gestione da parte della proprietà e del management dell'azienda. Ci voleva il ritorno della Fiat come azionista di maggioranza del gruppo Rcs per assistere allo scempio della "svendita" del palazzo storico di via Solferino e di quello di via San Marco a Milano, deliberata mercoledì dal consiglio di amministrazione e comunicata in tardissima ora sperando non facesse troppo rumore.
Un'operazione da 120 milioni di euro, a fronte di una ristrutturazione recente costata 80 milioni e un affitto da versare agli acquirenti che rende alla fine la plusvalenza quasi nulla. Soci e manager continuano così nell'opera di disfacimento di un'importante azienda editoriale dismettendo anche l'ultimo bene immobile in suo possesso, garanzia quantomeno delle liquidazioni dei lavoratori. Con una mano gli azionisti - dopo decenni di dividendi incassati - deliberano l'aumento di capitale (reso necessario solo dai loro pasticci) mentre con l'altra si rimettono in tasca qualcosa. Intanto abbattono senza sosta i costi che non dovrebbero toccare, iniziando dai posti di lavoro (370 persone in cassa integrazione, anticamera del licenziamento, nel settore Periodici e robusti esuberi tra i Quotidiani) per arrivare alle pagine di giornale. Ricette trite, perdenti e di brevissimo respiro.
Errori che partono da lontano ma hanno nomi e cognomi. Dagli Anni 90, quando la stessa Fiat rifila a Rcs la Fabbri decotta facendosela pagare ampiamente (risultato: zavorra di debiti e svariati posti di lavoro in fumo). Per arrivare alla fallimentare operazione spagnola per l'acquisto di Recoletos nel 2007, che definire torbida è poco. Vittorio Colao, ultimo manager indipendente di questa azienda, boccia l'acquisto. E allora cosa fanno gli azionisti? Via Colao e dentro Antonello Perricone, "suggerito" da Luca di Montezemolo. Immediato semaforo verde per la frittata spagnola, con un'azienda già in crisi strapagata 1.100 milioni di euro. Dopo di che, al termine di un lustro di vuoto pneumatico in termini di idee e investimenti, Perricone saluta portandosi via una lautissima e clamorosamente immeritata buonuscita da 3,4 milioni di euro. Dove finisce? A fare l'amministratore delegato di Italo, il treno di Montezemolo e Della Valle...
Subentra un nuovo management che, ovviamente, taglia con la scure e mette insieme un piano triennale che annuncia investimenti multimediali e obiettivi quantomeno ambiziosi. Un anno è già passato e di investimenti non s'è vista nemmeno l'ombra. Si sono invece viste solo mosse finanziarie, parecchio discutibili. Che tristezza. Pensavamo che qui si facessero giornali, non operazioni di acrobazia economica o giochetti per contare nelle stanze del potere. E vi raccomandiamo le banche. Prontissime a finanziare Tronchetti Provera (amico azionista, naturalmente) per riprendersi il controllo della Pirelli con soldi non suoi, ma incapaci di dare fiato al primo gruppo editoriale italiano, salvaguardando la sua indipendenza e garantendo il suo sviluppo.
Infine una riflessione anche per il sindaco Pisapia, che non ha speso una parola sulla vicenda. Come se un privato comprasse la Scala e il primo cittadino di Milano se ne stesse zitto e lontano. Quando tra qualche anno in sala Albertini ci faranno feste in stile Billionaire magari verrà invitato anche lui. Dovrebbe, insieme a tutti gli altri, provare a pensare a quando i giornalisti, seppur pesantemente sollecitati, non se ne andarono da questo edificio in tempo di Guerra. E a quando, durante la Resistenza, tra le rotative si nascondevano le armi per combattere fascisti e nazisti. Forse qualcuno riuscirà a capire perché mettere la storia in mano a un fondo speculativo immobiliare americano è una vergogna.

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Grifoni lontani ma non troppo - da Un Cuore Grande Così il 05/11/2013 @ 21:32

Se Milano avesse il mare sarebbe un piccolo Genoa. L’emozione di un figlio tifoso del Grifo (da: corriere.it) Il tifo solitario e la soddisfazione di riconoscere la «genoanità» degli emigranti di Roberto Perrone.
Quando aveva 3 anni mio figlio Giovanni mi disse: «Papà, tifo per il Milan». In quel momento mi interrogai sul mestiere di genitore. Ero stato un buon padre, fino a quel punto della vita di mio figlio? Che cosa gli avevo insegnato? Un padre emigrato, un degno rappresentante della schiatta dei xeneises (così ancora adesso si chiamano i tifosi del Boca Juniors) formato esportazione, non dovrebbe trasmettere a un figlio gli elementi fondanti della tradizione, della cultura del suo popolo? Ma se ghe pensu, feci un elenco dei punti chiave della cultura genovese (almeno secondo me): il mare, i pansotti con la salsa di noci, il Santuario di Montallegro e quello della Guardia, la focaccia (quella che noi chiamiamo «del mattino»), la focaccia di Recco (con il formaggio, croccante, avvolgente), la spiaggia di Paraggi, il Ferraris, il pesto, Gilberto Govi (uno dei più grandi attori italiani), i cantautori genovesi (in testa Fabrizio De Andrè, genoano, obviously) e, naturalmente, il vecchio Grifone. Sul resto avevo, più o meno, ottenuto risultati, ma quando il mio batuffolo biondo mi comunicò che avrebbe tifato per il Milan, mi accorsi che non avevo contribuito alla costruzione della sua coscienza di figlio di emigrante genoano.
Come spesso succede, sono i figli, specie nella loro innocenza infantile, a mostrare ai padri le loro mancanze e, ancora più sovente, sono sempre loro a risolvere i conflitti genitoriali.
LA «GENOANITA’» DELL’EMIGRANTE - Da 3 a 6 anni gli ho regalato una maglia del Milan con il suo nome, poi, poco prima che partissi per il Mondiale in Germania, venne di nuovo. «Papà, ho deciso che tifo per il Genoa». Beh, può sembrare strano, ma in quel momento mi sono sentito, dopo quasi 26 anni, cittadino di Milano. Avevo, finalmente, conquistato qualcosa della città, avevo conquistato mio figlio, che è nato e sta crescendo a Milano. Avevo fatto un proselito. E ci sono riuscito senza lavaggi del cervello, senza portarlo alle partite del Genoa, senza costringerlo a cantare i vecchi cori che io cantavo nella Nord negli anni ‘70, senza scudetti vinti in diretta. Solo con la mia presenza, solo con le mie esultanze (poche, ahimè) e le mie delusioni (molte). Quando mi disse che tifava per il Milan, avevo pensato che in fondo era meglio così, che non avrebbe mai sofferto come me, genoano di Milano in mezzo a gente che ti guarda sempre con commiserazione non richiesta quando riveli la tua squadra del cuore.
LA SODDISFAZIONE DI RICONOSCERSI - Però la genoanità dell’emigrante regala anche grandi soddisfazioni. Succede quando ti riconosci con altri della tua specie. Non è facile. Il genoano è riservato, restio a concedersi. Magari hai un «fratello» nell’ufficio accanto e non lo sai. Ma quando lo scopri l’emozione non ha eguali. A me è successo con Carlo Lovati impareggiabile cronista del Corriere e fan scatenato del Grifo. Mi ricordo, come se fosse ieri, una bella serata del settembre 1991 al Ferraris. Il Genoa di Skuhravy, Aguilera e Branco giocava la partita di ritorno del primo turno di Coppa Uefa (conquistata con lo strepitoso quarto posto del precedente campionato). Sconfitto 0-1 a Oviedo, vinse, dopo una partita adrenalinica 3-1 al ritorno. Finita la partita, con lo stadio ormai quasi vuoto, mentre terminavo il mio articolo in tribuna stampa, mi si parò davanti un pazzo che urlava e gesticolava. Inizialmente non gli badai, continuando a scrivere. Tra me pensavo: che diamine, fanno entrare gli ultrà in tribuna stampa. Poi alzai lo sguardo e mi trovai di fronte il barbone di Carlo. A quel punto ci abbracciammo e mi costrinse a saltare con lui.
TIFO SOLITARIO - Vivere da milanese una squadra non milanese è anche questo, riconoscere chi è come te. Ma questo è ancora più emozionante per chi, come noi genoani, spesso viviamo il nostro tifo da soli. Non è facile essere genoani a Milano, però quando ho visto mio figlio andare a scuola con la maglia del Grifo dopo il 3-0 alla Samp nel derby, lo confesso, mi sono commosso. Valeva la pena di emigrare, di soffrire, di stare sottotraccia per vedere una maglietta del Genoa indossata da un ragazzino che cammina per le strade di Milano.

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Mezzo secolo! - da Un Cuore Grande Così il 01/11/2013 @ 23:30

Dal carcere e dalla violenza alla gloria. Hopkins resta campione a quasi 50 anni (da: repubblica.it). La vittoria sul ring di Atlantic City contro il tedesco Murat rafforza ancora di più il record dello statunitense (classe 1965), il più vecchio campione nella storia della boxe. Il quadrato come redenzione per un uomo che prima di prendere la strada giusta ha vissuto fuori dalla legalità foto.
Ha perfino cambiato alias. Da "The Executioner", il boia, ad "Alien" per sentirsi ancora più unico nello spietato mondo del pugilato. Perché Bernard Hopkins unico lo è decisamente, visto ogni volta che combatte - e vince - ritocca il suo record, quello di più anziano campione del mondo della storia del pugilato. Le note di My Way, che lo hanno spesso accompagnato nel tragitto della verità, quello che porta dagli spogliatoi al ring, sono di fatto la colonna sonora della sua esistenza. "Ho vissuto una vita piena, ho viaggiato su tutte le strade, l'ho fatto alla mia maniera". Parole della canzone scelte non a caso. Il 15 gennaio "The Executioner", o Alien che dir si voglia, compirà 49 anni. Nessuno, neanche George Foreman, uno che definire mito è quasi riduttivo, è riuscito a tanto. L'ultima 'vittima' di Hopkins, attualmente campione del mediomassimi, è stato Karo Murat, che sul ring di Atlantic City è stato rispedito al mittente, in Germania, in maniera brusca (vittoria ai punti, ma netta), nonostante i 18 anni di differenza nei confronti del campione.
Incroci nella notte americana di storie complicate. Murat ad esempio, passaporto tedesco ma sangue iracheno, ha avuto una marcia di avvicinamento difficile anche alla trasferta negli Usa, che le autorità americane non volevano concedere (burocrazia, permesso di soggiorno). Robetta però a confronto con il cammino di Hopkins, un uomo che nella vita ha commesso sbagli, ma senza ricevere né la comprensione, né tantomeno i regali di nessuno. Lui sul ring continua a salirci alle porte dei 50 anni per recuperare il tempo perduto. In fondo, battagliare con un Murat qualunque - con tutto il rispetto - mentre altri cinquantenni vedono la circonferenza aumentata da cibo e permanenza illimitata sul divano, è poca cosa per uno che in gioventù si è beccato tre pugnalate in corpo, ha scelto di procurarsi da vivere facendo rapine ed è finito in carcere con una fedina penale lunga quanto un elenco del telefono.
Proprio in carcere, secondo un filo conduttore tipico di molti grandi della boxe, la folgorazione con il quadrato, ma anche la presa di coscienza che esistono strade alternative a quella della violenza. Passa professionista a 23 anni, il primo incontro addirittura lo perde. E' fortissimo, ma per arrivare alla prima sfida mondiale impiega 5 anni. Perde da Roy Jones - ci sta da uno molto forte -, e quando gli si ripresenta l'occasione pareggia con Segundo Mercado andando a sfidarlo nella tana ecuadoriana di Quito. Un verdetto dubbio che aumenta la sua rabbia e gli suggerisce di chiudere la pratica per ko nella rivincita. La corona dei medi è sua, e praticamente non la molla più per dieci anni. Tanto, ma non gli basta per essere amato dalla gente. Bada al sodo, il suo obbiettivo è vincere sul ring, quella sostanza figlia della voglia di riscatto va oltre la forma.
A rendersi simpatico non ci pensa proprio. Non rinuncia alla macabra salita sul ring, incappucciato e con le mani incrociate, neanche quando respinge l'assalto di Tito Trinidad nella prima riunione mondiale in Usa dopo il disastro dell'11 settembre. Forse è anche per questo che quando combatte contro Oscar De La Hoya, nell'organizzazione del quale entra successivamente a far parte, l'America perbenista gli tifa contro. Lui però non fa una piega e si vendica con un colpo ai fianchi che piega fisico e orgoglio del Golden Boy. Era il settembre del 2004. Successivamente Hopkins, salito di categoria, alterna parecchie vittorie a qualche sconfitta, non sempre chiara e decisamente contestata, come contro l'idolo gallese di origine sarda Calzaghe, faccia e storia più calzante per i media.
Sempre controcorrente. Si dice che la potenza sia l'ultima qualità che accompagna un pugile, invece lui negli ultimi nove anni non batte più nessuno prima del limite. Anche Murat, pur uscito un po' spaesato dal suo orticello della potente organizzazione tedesca, riporta a casa abbastanza intatta la mascella. Ma Hopkins quando appenderà guantoni al chiodo? Ancora non sembra deciso, al punto che si vocifera di una 'dieta' per rientrare nei medi e di un contemporaneo irrobustimento di Floyd Mayweather jr per salire di categoria: match a sensazione, tecnicamente improponibile per tanti motivi, ma non certo per la valanga di quattrini che ballerebbe, magari di nuovo sulle note di "My Way"...

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