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FRATELLI NELLA VITA, NON SOLO ALLA PARTITA!!! La Tifoseria Organizzata comunica che, come avvenuto in occasione della gara con il Livorno, anche con il Napoli verrà effettuata al di fuori dello stadio una raccolta per aiutare un ragazzo di Ancona con gravi problemi di salute. La T.O. del Genoa è sempre stata presente quando c’è stato bisogno di dare una mano, e questa volta non vogliamo essere da meno, in particolar modo perchè si tratta di uno di noi, un fratello di Ancona. Noi Genoani abbiamo dimostrato più volte di saperci compattare per stare vicini a chi ne ha più bisogno, e questa volta il nostro obiettivo è rafforzato da oltre 20 anni di gemellaggio e forte amicizia, di cui noi siamo fieri e orgogliosi. Chiunque e in qualsiasi momento può rivolgersi alla T.O. per avere delucidazioni e chiarimenti in merito alla destinazione della raccolta, perchè chiarezza e trasparenza stanno alla base del nostro operato. ANCORA UNA VOLTA, APRIAMO TUTTI INSIEME IL NOSTRO VECCHIO CUORE ROSSOBLU!!! La Tifoseria Organizzata del Genoa CFC 1893 ** Sabato torna la festa del gemellaggio (da: solonapoli.com) Un´amicizia tra i tifosi di Genoa e Napoli che va avanti dall’82 ed è fatta di tolleranza e di reciproco rispetto. E sabato il Genoa. Un vecchio amico. Un “fratello”. Di più: un “gemello”. Sì, è vero, nel calcio i gemellaggi appartengono ai tifosi e ai loro migliori sentimenti e non certo a quelli dei club e delle squadre che restano rivali, ma fa bene a tutti sapere che quel match vivrà sempre d’un clima d’amicizia e di serenità. E Dio solo sa quanto ve ne sia bisogno dopo i cori, le lamette e i sassi di Milano. Cosicché fa bene al cuore ed al pallone quel banner colorato che va e viene sul sito ufficiale rossoblù. “Il gemellaggio più bello del mondo, vi aspettiamo”: questo il messaggio genoano al tifo azzurro. Poche e sincere parole che resistono dall’82. Da trent’anni e passa. Dal 16 maggio di quell’anno, quando il San Paolo intero tifò per un pari che avrebbe tenuto il Genoa in A e condannato, invece, il Milan alla retrocessione in serie B. E fu così che dopo un corner regalato dal quel cuore buono di Giaguaro Castellini, Mario Faccenda, ischitano di nascita e genoano d’adozione, lasciato – guarda un po’! – tutto solo a tre metri dalla porta mise in rete il pallone del facile due a due. LA STORIA – Fecero gol Briaschi e Faccenda per il Genoa e Criscimanni e Gaetanino Musella per il Napoli e furono abbracci e baci in campo e fuori, quel giorno. E tra i tifosi nacque spontaneo un giuramento d’amicizia che il tempo ha rafforzato. Già, perché nel 2007 i tifosi azzurri e quelli rossoblù intorno alla fontana di bronzo di piazza De Ferrari cantarono e ballarono assieme per il ritorno in A. Una festa che sabato ritorna, dunque. Soprattutto, un appuntamento che restituisce protagonismo ad uno dei valori fondamentali dello sport, negando finalmente l’equazione che il raduno di due folle diverse di tifosi è sempre uguale all’irrazionalità più distruttiva. Non è vero. Genoa e Napoli dimostrano il contrario. E cioè, che anche il bistrattato (ahinoi, spesso non a torto) tifo del pallone può portare in sé forze innovatrici e promotrici di mutamenti positivi. Buoni esempi, insomma. Buoni esempi di un calcio vissuto senza barriere ideologiche pur senza il venir meno, mai, dei principi di identità e senso d’appartenenza ad una maglia e ad un colore. FESTA - Tutti assieme appassionatamente allo stadio genovese, dunque, sabato pomeriggio. Un felice intreccio di sciarpe e di bandiere, così come felice fu quello vissuto nelle strade di Napoli nel giorno dell’ancora fresca, suggestiva e vincente sfida col Borussia. E infatti non è escluso che il tifo azzurro si gemelli presto anche con quello tedesco giallo e nero. E sarebbe il primo gemellaggio con un tifo al di là dei confini nazionali. Esperienza che il Genoa, invece, già vive con soddisfazione da quando ha stretto vincoli di fraternità con i cuori matti della Bambonera. Con i tifosi del Boca Juniors, insomma, E non poteva che essere così, visto che quel quartiere colorato della capitale d’Argentina fu tirato su da italiani in gran parte salpati proprio dal porto genovese. Certo, un gemellaggio non è un porto, ma può essere ugualmente un punto di partenza verso terre di tolleranza e di reciproco rispetto. E non è poco, no?
Perché dovresti tifare proprio per la squadra della tua città? (da: blackpagefootball.com) Da ragazzino ero un tifoso sfegatato del Tottenham Hotspur. Non sono del nord di Londra, e tanto meno inglese, ma ero un tifoso: seguivo le sorti della squadra, guardavo le loro partite appena possibile e compravo (o piuttosto ricevevo) le divise non originali, che indossavo con orgoglio mentre tentavo di emulare i miei idoli Stephen Carr, Jürgen Klinsmann e Darren Anderton. Per aver scelto quella squadra, dovevo sopportare gli inevitabili sfottò di quelli che ho sempre pensato fossero tifosi di Liverpool e Manchester United solo perché erano club vincenti, e scoprii persino di essere vagamente solidale con altri sofferenti sostenitori degli Spurs. Ma era una mia scelta? Cioè, tifare per gli Spurs era davvero una mia scelta? La risposta breve è no; ero, per usare un termine piuttosto crudo, indottrinato. Mio padre (neanche lui del nord di Londra) tifava per gli Spurs e, al tempo, pareva semplicemente naturale per me fare altrettanto. In effetti era abbastanza prevedibile che mi comportassi così. Quando ci ripenso, era davvero una grande opportunità per creare un legame tra di noi (credo che ogni padre dovrebbe sforzarsi di trovare un’attività in cui poter coinvolgere il figlio). Comunque, crescendo persi gradualmente interesse per gli Spurs, le cui sorti, per un crudele rovescio del destino, al contrario miglioravano. Improvvisamente mi sentivo strano a tifare per una squadra con cui non avevo nessuna relazione personale e nemmeno ideale, una squadra che, in realtà, non mi rappresentava. Così, decisi piuttosto di concentrare le mie energie sulla squadra della mia città, il Derry City. Ho frequentato regolarmente il Brandywell nei tardi “90” e nei primi “2.000”, andando alle partite con mio padre e un cugino che aveva l’abbonamento. Vinsi addirittura il concorso del Derry Journal “Una faccia nel pubblico” che, per la mia gioia, mi fruttò le ultimissime prima e seconda maglia del Derry City dell’epoca. Fu quasi una sorta di consolazione per l’imbarazzo di avere la mia immagine a bocca aperta trasmessa al City (qualcosa per cui amici e professori non persero tempo a prendermi in giro). Più o meno nel periodo in cui ero nato, il Derry City era una delle squadre più forti d’Irlanda, ma intorno ai primi “2.000” le loro sorti erano parecchio in declino. Tuttavia, questo non mi impedì di gustare le mie regolari gite al Brandywell. Uno degli spettacoli più belli cui abbia mai assistito furono i play-out del 2003, quando la leggenda del City Liam Coyle, nella sua ultima partita di sempre, condannò i rivali locali del Finn Harps a un’altra stagione in First Division davanti a un pubblico di oltre 7.000 persone. Una cosa magica. A quasi 10 anni da quel giorno, tifo ancora per il Derry City e nel frattempo ci sono stati un bel po’ di “alti” e, sfortunatamente, alcuni “bassi”. Come può un tifoso del Derry City dimenticare la meravigliosa avventura europea del 2006 o le (diverse) coppe vinte? Allo stesso modo, i tifosi hanno conosciuto il dolore di una rancorosa caduta in disgrazia quando il club fu sommerso dalle polemiche e retrocesso, per la prima volta nella sua storia, nel campionato irlandese di First Division. Una cosa è certa, seguire il Derry City non vi lascerà a corto di drammi. In ogni caso, per me la vera attrattiva è il senso di appartenenza che mi dà tifare per il club. Quando guardo il Derry City in televisione o viaggio al seguito delle trasferte, guardo una squadra di giocatori modestamente retribuiti, la maggior parte dei quali proviene da Derry e dall’area circostante. Con alcuni giocatori del City ci sono anche andato a scuola, e ho giocato con e contro degli altri – davvero la relazione è tangibile. Quando invito le persone a tifare per la squadra della loro città invece che per qualche entità straniera tipo Manchester United o Celtic Glasgow, questo non nasce, come si potrebbe equivocare, da un odio meschino per tutto ciò che è "British", viene dal desiderio genuino di contribuire alla prosperità delle attività locali. Ma per usare le parole sarcastiche di un mio buon (grande, direbbe lui) amico: “Sicuro che c’è un vantaggio nel tifare per la squadra della propria città? Perché prendersi il disturbo di fare un breve tragitto fino al Brandywell e spendere una piccola somma per veder giocare una squadra di concittadini, quando potresti spendere somme spropositate tifando per una squadra di un altro paese piena di individui strapagati?”. Già. Perché prendersi il disturbo? Sostieni la squadra della tua città! Support your local team! Sotto, 'fantasia' di tifosi della nazionale russa allo stadio 
Dal profilo facebook di Roberto Scotto: Buongiorno, parlare di calcio con il Genoa degli ultimi anni è fatica sprecata, continuiamo a farci del male da soli.. E' sotto gli occhi di tutti l'incompetenza come allenatore di Liverani, nel calcio come nella vita, la differenza la fa l'esperienza, la gavetta, quest'anno dopo due anni disastrosi, pensavamo che ad una rosa già più decente si accoppiasse un allenatore d'esperienza che potesse dare un minimo di gioco e meno patimenti, chi ha scelto di partire con un allenatore che aveva fatto solo gli Allievi si è assunto una grande responsabilità e come sempre a pagare sono i tifosi, mi aspetto i mea culpa a breve, ma non cambiano il mio giudizio, è stato un azzardo che pagheremo ancora per un po'! Se poi ci volessero anche far capire che cazzo fa Rosati gliene saremmo grati! Comunque il nostro compito è di mantenere viva la Genoanità nella speranza che qualcuno si accorga di questo "Gigante Addormentato" che per la stampa inglese è il Genoa 1893, una potenzialità che solo chi ama il calcio riesce a vedere.. Con tutto il rispetto il P.S.G. o il Monaco non hanno nemmeno lontanamente il fascino della storia e della leggenda dei pionieri del calcio in italia e in europa, e in attesa che qualcuno capisca, noi continuiamo ad essere il solo patrimonio della società, i suoi meravigliosi tifosi.. Detto questo e per ribadirlo, domani sotto la Tribuna alle ore 16 ci sara la presentazione del Libro.. Grifone fragile, dedicato al Faber genoano, quello meno conosciuto, quello se possibile ancora più vicino a noi, ma saremo lì anche a festeggiare a sorpresa gli 80 anni di Pippo Spagnolo.. Uno dei padri fondatori della T.O... Siete quindi invitati a partecipare se ne avrete piacere, e siccome tanta gente mi ha chiesto dove comprare il libro e quanto costa (cose che non sapevo assolutamente) mi sono preso la briga di chiedere che per la presentazione ci fosse un prezzo migliore per i genoani, così mi hanno assicurato che il costo sarà di 14 euro invece di 17 e ci sarà un banchetto della libreria così se qualcuno pensava di comprarselo o regalarlo può risparmiare qualcosa che di questi tempi non guasta!.. Nel post c'è un passaggio del libro dettato da Pippo.. Consiglio a tutti di leggere bene perche cosi tanta genoanita di due personaggi puo solo fare bene!.. Un abbraccio... Roby ** Essere del Genoa è un inno alla libertà, al mare. (dal libro Il Grifone fragile di T. Cagnucci) "Quella sciarpa gliel'ho regalata io..." «Dentro alla bara di Fabrizio c’è una sciarpa del Genoa... Quella sciarpa gliel'ho regalata io... Fabrizio era uno del grande popolo del Genoa. Lui queste cose le sapeva bene, le sapeva meglio di chiunque altro. Di che parliamo? Di questo sentimento di genoanità. Di quel campionato di serie C, di quel Genoa lì... Le sapeva persino meglio di me certe cose De André, eppure senza di me sugli spalti il Genoa non giocava. La mia prima partita allo stadio è del 1939, Genoa contro Liguria, all’epoca loro (i doriani, nda) non c’erano... Mi chiedi perché i doriani non cantano allo stadio Creuza de ma? E ti credo, come fanno? ... Genova non è roba loro. Non li consideravamo, io non so chi siano. A Genova sono famoso anche per questo, una volta Il Secolo uscì con una pagina e un titolo: "Ecco l'uomo che non ha mai nominato la Samp". (...) La Liguria aveva la maglia nera, era la squadra dei fascisti. Anche in questo Fabrizio è stato profondamente genoano. Anarchico nell’anima. Sotto il fascio ci hanno costretto a cambiare nome, ci hanno chiamato Genova, perché noi eravamo la squadra del popolo, ma anche la squadra fondata dagli inglesi. Io me le ricordo le irruzioni delle squadracce in piazza De Ferrari in sede. Essere del Genoa è un inno alla libertà, al mare. E Fabrizio De André più di ogni altro ha cantato la libertà. Per me il Genoa è sempre stato tutto. Ho fondato club e ho vissuto la Gradinata Nord. C’era un tempo in cui se non andavo allo stadio non cominciava la partita, ancora adesso vado allo stadio, sempre andrò a vedere il Genoa, in tribuna o a salutare i ragazzi della Gradinata. Li conosco tutti. Sono stato testimone di nozze di Ramon Turone, che grande Ramon, l’hai sentito? Lui l’ha conosciuto Faber. Quando abbiamo vinto quel mitico campionato di serie C, poi l’hanno venduto al Milan, lui quella sera è venuto a bussare a casa mia piangendo, sbattendo la porta: “Pippo fai qualcosa tu, fammi restare, non mi far andare via dal Genoa”. L’ho dovuto consolare e dirgli io: “Guarda cazzo che vai al Milan!”. Non gliene fregava niente, Ramon era stato il Capitano di quel Genoa entrato per sempre nei nostri cuori, dei cuori malati di Genoa come quello di Faber. Quando Turone è andato a Roma sono andato a trovarlo, a Via Appia. Io simpatizzo per la Roma. Ci legano tante cose... Ogni genoano sente l’orgoglio di avere Fabrizio De André nella sua famiglia, è uno di noi, gli abbiamo fatto parecchi striscioni. La sua era una passione incolmabile di cui io sono testimone. Il testimone della fede di Faber. Mi piace questa cosa. Lui era uno del popolo del Genoa. E c’è tanto dell’essere genoani nel suo modo di cantare. Fabrizio De André non era un simpatizzante, non era uno così, era uno colto del Genoa, uno che ci capiva, che non lo esternasse è un altro conto. E pure questo fa parte della genoanità. Noi non svendiamo le cose. (...) Parlavamo soprattutto di cosa significhi essere genoano. Parlavamo dei tempi mitici di quella serie C. Tu mi chiedi qual è stata la gioia più grande di me come tifoso, io ti dico la vittoria nel campionato di serie C nel 1970-71. È così per chiunque abbia vissuto la storia del Genoa. La prima partita di quel campionato a Marassi c’erano 42 mila persone, vattelo a vedere! Siamo andati porta a porta a prendere la gente per portarla allo stadio. Più di 40 mila genoani per la prima partita in serie C della nostra storia contro l’Olbia. Questo è il Zena. Questo è quello che ci raccontavamo con Fabrizio. Non gli è andata mai via questa passione: se l’è portata fin dentro la tomba». (Pippo Spagnolo) Sotto, trasferta anni '80 in Sardegna per la Fossa dei Grifoni
Il Mundial Dimenticato (da: youstreamfilm.altervista.org) La vera incredibile storia dei Mondiali di Patagonia. Uno scheletro umano ritrovato in mezzo ai dinosauri fossili negli scavi paleontologici di Villa El Chocon, nella Patagonia Argentina. Al suo fianco, una macchina da presa modello anni ’40 ha conservato per quasi sessant’anni un documento di inestimabile valore storico: le riprese della finale del Campionato Mondiale di Calcio giocato in Patagonia nel 1942, a migliaia di chilometri di distanza da un’Europa impegnata a fronteggiare la minaccia del nazismo. Una tappa della storia del calcio mai riconosciuta dagli organi ufficiali dello sport e per decenni rimasta avvolta dal mistero, anche a causa della tremenda alluvione che si abbatté sulla Patagonia il giorno della finale (il 19 dicembre del ’42), provocando il crollo dello stadio i cui resti sono ancora oggi sommersi dall’acqua. Più che un semplice documentario sportivo, il film di Lorenzo Garzella e Filippo Macelloni, già autori brillanti di Rimet – L’incredibile storia della Coppa del Mondo (2010), è un viaggio entusiasmante nel cuore della Patagonia di ieri e di oggi che svela un sentimento agonistico genuino e patriottico ormai sconosciuto al mondo del calcio globalizzato e mercificato di oggi. Un sentimento difeso con orgoglio nazionale e sportivo da 12 squadre rappresentative di altrettanti Paesi, schierate in campo dal delirante e visionario Conte Otz deciso ad organizzare a tutti i costi quei Mondiali di calcio che la guerra in corso fece saltare per 2 edizioni. Tanto che, nel leggendario campionato del 1942 giocato in Patagonia, alle squadre ufficiali dei Paesi in competizione si sostituirono altrettante squadre composte non da giocatori professionisti ma da immigrati. Operai, minatori, ingegneri, militari e pescatori, esiliati e rivoluzionari in fuga, giunti in America del Sud da ogni parte del mondo per costruire un’importante diga in mezzo al deserto. Come racconta Antonio Battilocchi, a sua volta immigrato e giocatore della “Nazionale” azzurra del 1942, al fianco di due soli professionisti ingaggiati con una colletta dalla comunità italiana: Puricelli e Bernini, ovvero il “toro” e il “pavone”. Ma Il Mundial dimenticato è ancora qualcosa di più. Un viaggio indietro nel tempo, nella storia delle nazioni e degli uomini, reso possibile dalle invenzioni di un personaggio eccentrico e straordinario come Guilliermo Sandrini, ex fotografo di matrimoni e cineoperatore di provincia, di origini italiane, con la passione di inventare e sperimentare. Ingaggiato dal Conte Otz per filmare il grande evento, reinterpretando in chiave pacifista e interraziale il lavoro di Leni Riefensthal, regista del regime nazista che con il suo film sui Giochi Olimpici di Berlino del 1936 aveva già rivoluzionato il modo di ritrarre la plasticità del gesto sportivo. Ed è proprio attraverso la figura di Sandrini, cui appartengono i resti ritrovati accanto alla preziosa cinepresa, che il documentario di Garzella e Macelloni si ammanta di fascino e curiosità. Dalle sue invenzioni sorprendentemente intuitive (il “cine-casco”, la “camera fluttuante”, la “trampilla” e la “cine-pelota”), adattate ai movimenti delle partite di calcio, al suo amore forse mai confessato per la fotografa Helena Otz, figlia del Conte e artista dell’avanguardia europea, al centro del triangolo amoroso con il soldato tedesco Klaus Kramer, mandato in Patagonia da Hitler come “infiltrato” ai campionati, e il giocatore Mapuche ricordato come la “tigre” della squadra indigena. Sport, amore e guerra, cinema e invenzione, natura e scienza fanno de Il Mundial dimenticato un piccolo gioiello di documentazione creativa, al confine con il surreale e la leggenda. Ripuntando i riflettori su una storia che ha dell’incredibile. Sotto, il film completo in lingua polacca con sottotitoli inglesi
Campioni senza valore, la piaga del doping da Mennea a Costa (da: sportstory.it). La piaga del doping è un argomento che negli ultimi anni è salito agli onori delle cronache, ma in realtà ha origini lontane. Lo testimonia il libro di Sandro Donati “Campioni senza valore” edito nel 1989 e subito ritirato dal commercio a causa del suo contenuto compromettente per la federazione di atletica, non solo italiana. Il testo originale è ormai diventato irreperibile. Donati, tecnico della nazionale di atletica nel settore velocità, racconta con prove e particolari i meccanismi della macchina doping, azionata con l’obiettivo di vincere e portare il lustro sportivo alle federazioni. L’uso di farmaci come anabolizzanti e la tanto discussa autoemotrasfusione, sono state per anni attività praticate giornalmente accanto all’allenamento. “Chi non è il numero uno o non è in corsa per diventarlo è solo un fallito. Ma è da questa concezione aberrante dello sport che ha tratto linfa vitale la filosofia del doping e degli altri trucchi finalizzati a ottenere l’unico scopo riconosciuto, a qualunque costo” Il libro è ricco di nomi e personaggi che ruotano attorno all’alterazione chimica delle prestazioni dello sportivo. Su tutti riecheggia il nome di Francesco Conconi, noto medico sportivo. Nel libro l’ex tecnico della Nazionale ricostruisce come in un diario tutti i passaggi che hanno portato anche il Governo a interrogarsi in Parlamento sulla questione doping e sui i rischi, non solo per i professionisti, ma anche per i dilettanti e i giovani educati all’attività sportiva. “La degenerazione non può essere attribuita solo a un uomo o a pochi uomini. L’atletica impazzita di questi anni ha avuto milioni di tifosi e migliaia di cantori” Due elementi sconvolgono: l’approssimazione delle ricerche e le morti sospette. Non tutti gli atleti dopati riuscirono a conseguire risultati positivi, anzi per alcuni fu un calvario di controindicazioni. Tra gli altri il caso di Fulvio Costa, morto a 23 anni dopo quattro mesi di agonia. Il 30 maggio 1982 si spense in un letto dell’ ospedale di Vicenza stroncato da una glomerulonefrite, una forma di infezione del sangue che aveva compromesso entrambi i reni. La sua morte, ufficialmente archiviata per “infezione dovuta al morso di un cane”, fu oggetto di indagine pochi anni fa. L’accusa formulata fu omicidio colposo, la causa fu il ricorso all’autoemotrasfusione per fini agonistici. Donati dedica anche un capitolo a Pietro Mennea, dove ricorda come l’atleta azzurro denunciò in un’intervista rilasciata a Gianni Minà per La Repubblica, di essere ricorso ad una terapia, a base di somatotropina, prescritta dal professor Kerr. Dopo un paio iniezioni, però, capì l’errore e ne fece pubblica ammenda. Il tentativo di sensibilizzazione di Mennea non fu recepito dal grande pubblico e dalla stampa, che nel 1987 continuava ancora a tacere l’evoluzione devastante del doping. “Mennea, dopo tante denunce pubbliche avanzate in tema di doping, agli occhi di molti aveva perduto, con quelle assurde iniezioni praticate su suggerimento di Kerr, gran parte della sua credibilità” Donati fu emarginato a causa dei suoi tentativi di denunciare uno status di irregolarità nel mondo dell’atletica. La sua caccia alle streghe lo portò ad una lunga emarginazione, ma il suo coraggio è stato fondamentale per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema. Solo di recente le sue denunce sono state rilette sotto un’altra luce. Il libro in rete è scaricabile gratuitamente al seguente link: www.asdplaysport.it campioni senza valore .pdf
(da: uscatanzaro.net) Domenica il Catanzaro giocherà a Lecce con il lutto al braccio. La scelta della società è particolare: rendere omaggio a un tifoso. Sarebbe impossibile farlo a ogni occasione simile. L’eccezione è spiegata da un bellissimo gesto d’amore nel momento più terribile: il crepuscolo di una esistenza. Carlo La Forza aveva 38 anni, due bimbi piccoli e una passione: il Catanzaro. Agli amici, incontrati nelle trasferte più vicine a Milano, ripeteva: «Spero che presto Francesco mi chieda di portarlo con me allo stadio. E spero faccia il tifo per i miei stessi colori». Progetti di vita, speranze, sogni e altro ancora. Tutto spazzato via a giugno, dopo una polmonite e una visita di controllo con sentenza: «Preparatevi al peggio». Forse è stato allora che Carlo ha pensato a un modo per andare oltre la morte, per lasciare qualcosa di concreto a un figlio di soli 3 anni. Con dignità ha combattuto la battaglia, sopportando cicli di chemio e radio. Abbonato in punto di morte. ma ci sono angoli dove nemmeno la malattia più bastarda può arrivare: le passioni sono intoccabili. Quella per il Catanzaro era speciale: lui nato e cresciuto a Napoli aveva scelto di tifare per una squadra lontana. Non aveva cambiato idea neppure quando tutta la città era impazzita per un re argentino. Ma lui a Maradona aveva preferito Massimo Palanca. Dopo la laurea in Ingegneria, il viaggio verso nord in cerca di lavoro: prima Torino, infine Milano. E le domeniche in macchina per inseguire una passione dentro uno stadio. L’ultimo a Prato lo scorso aprile. Due mesi dopo Carlo ha trovato un avversario imbattibile. Forse. Quando ha capito che non c’era nulla da fare, si è rizzato in piedi, lo ha guardato dritto negli occhi e gli ha fatto un tunnel, scavalcandolo. Come? Ha chiamato il club Massimo Palanca: «Voglio abbonarmi, mandatemi tutto a Milano. E fate presto». E quando qualcuno ha provato a capire il perché di quel gesto, si è sentito rispondere: «Voglio l’abbonamento, la ricevuta... voglio tutto perché mio figlio sappia, quando me ne andrò, che suo papà tifava Catanzaro». L’abbonamento è arrivato in tempo: Carlo è volato in cielo poche ore dopo la prima vittoria in campionato della «sua» squadra. Qualcuno spiegherà a Francesco il significato di passione, di tifo vero e non violento. E gli dirà che in una domenica di settembre il Catanzaro aveva il lutto al braccio nel nome di suo padre.
Dopo diversi giorni di consultazioni, e dopo quasi 200 immagini prese in considerazione, la giuria composta da Giovanni, Marco, Riccardo, Rita e Silvia ha deliberato quali coreografie, cittadine e non, son state reputate le migliori e quindi le vincitrici del concorso indetto dalla Tifoseria Organizzata che assegna tre casacche rossoblù utilizzate nell’ultimo cappotto inflitto a quelli là e autografate da tutta la squadra. 
Si è spaziato davvero in lungo e in largo e le tre creazioni artistiche, frutto di fantasia, lavoro e cuore rossoblù che sono state scelte hanno davvero soddisfatto tutti i giurati, la speranza è quindi che il giudizio sia poi condiviso dai più. Vincitore assoluto, forse inarrivabile per quantità di materiale e per qualità dello stesso nonché per il nostro amato Grifone graffiante assoluto protagonista, si è classificato Marco G. alias Mk Unoottonovetre, che in quel di Marassi ha creato quest’opera d’arte.  Cuore, buona volontà e significato intrinseco, fanno si che anche lo stupendo lavoro messo su all’interno della struttura di cura “Villa Basilea”, completamente imbandierata a festa e con lo striscione MATTI PER IL GENOA in bella evidenza, entri nella top 3 delle nostre preferenze.  Last but not least, per usare non casualmente una locuzione propriamente inglese, si è rivolto un pensiero ad un Grifone lontano, che quindi purtroppo il Genoa può vederlo solo da km di distanza, che non per questo ha rinunciato a addobbare la propria finestra in quel di Londra, ovvero Marco L.G.  Finito tutto qui?? Naaa manco per idea.. la giuria, colpita dalla tenerezza degli scatti e facendo leva sulla propria sensibilità animalista, ha pensato di assegnare ulteriormente due premi speciali, consistenti in due magliette Old Block rosa, a due immagini in cui, oltre al “Vecchio Balordo”, i protagonisti sono i due migliori amici dell’uomo: cane e gatto, ecco quindi alla ribalta gli scatti di Stefano G. di Begato e Loredana P. di Quinto.
Un ringraziamento sentito alla T.O. che ha avuto l'idea e messo a disposizione i premi, a tutti coloro che hanno partecipato e 120 complimenti ciascuno ai vincitori!!! Oltre naturalmente a un MEGACLAMOROSO FORZA GENOA!!!
Italia-Argentina, quando Panatta regalò le sue racchette e disse addio. La prossima edizione della Coppa Davis ripropone un match che, nel 1983, segnò il canto del cigno del grande campione azzurro (da: repubblica.it). "Ma guarda che bel movimento ha Panatta alla battuta, sarà un peccato non rivederlo più". Sulle tribune del Foro Italico si sta consumando un doloroso addio. Adriano Panatta, il campione azzurro, gioca per l'ultima volta davanti al suo pubblico, il Foro Italico di Roma. E' un luglio caldissimo, quello del 1983 e in tribuna - c'è tanta gente come sempre quando in campo scende il vincitore di Roma, Parigi e Davis anno di grazia 1976 - si cerca inutilmente di combattere l'afa con improvvisati ventagli e cornetti Algida a go-go. Il match non ha storia. Panatta resta un giocatore sempre bello da vedere per i suoi gesti classici, le volee pennellate, servizio e smash impeccabili, drittone e rovescio in back che rimbalza pochissimo ma ormai, a 33 anni, non ha più la forza e lo spirito per competere con i più forti. E questi quarti di finale di Coppa Davis lo mettono difronte all'Argentina dei super terraioli Guillermo Vilas e Josè Luis Clerc. Il primo match vede Adriano soccombere con Vilas in maniera piuttosto netta: 6-2, 6-2, 6-1. Curioso: le ultime due partite di Adriano vedranno sempre in campo il mancino di Buenos Aires, il giocatore che Panatta sconfisse nel 1976 in finale proprio a Roma per conquistare il suo primo importante trofeo e prendere un inarrestabile slancio positivo che lo avrebbe portato a trionfare al Roland Garros nella settimana successiva. Ricordi felici. In questa estate 1983, invece, "Willie" Vilas è ancora al top, fisicamente e agonisticamente e Adriano cede puntualmente quando lo scambio, fatalmente, si allunga. Il romano regala qualche delizia, tipo una "veronica", colpo al volo alto sul lato del rovescio, una sorta di elegante schiacciata, ma la partita scivola via in fretta. Clerc, invece, deve sudare cinque set per avere ragione di un Corrado Barazzutti ancora tostissimo. Dopo la prima giornata siamo 0 a 2. Il confronto è segnato ma c'è la speranza di fare bene nel doppio. Dove Adriano dividerà il campo col compagno di sempre "bracciod'oro" Paolo Bertolucci. Panatta-Bertolucci contro Vilas-Clerc (che tra l'altro non si amano affatto e giocano in coppia solo per ragioni di Davis). E' questo l'ultimo atto di una carriera fantastica per vittorie e sconfitte (epiche anche queste, particolari, intense proprio come i successi) di Adriano. Che gioca con orgoglio e classe e, strappa applausi agli spalti che sanno di assistere a una esibizione che non avrà più repliche. "Che volee di rovescio, dai, questi colpi gli argentini se li sognano, tirano solo quelle mazzate arrotate", si sente dire in romanesco dal pubblico a ogni vincente di Panatta. Ma quelle mazzate, potenti e regolari, quei passanti in top, hanno, infine, la meglio. La coppia azzurra si arrende con onore per 7-5, 6-3, 6-4. E chiude tra gli applausi, romantici e struggenti di chi sa che una bella storia si è chiusa e all'orizzonte non si vede nulla o quasi. Il turno di Davis è andato, i sudamericani conducono per 3 a 0 (finirà 5 a 0) e gli ultimi due match si giocheranno solo perchè sono stati venduti numerosi abbonamenti che prevedono anche gli incontri della terza giornata. Adriano non ci sarà. Chiude lì. Ha deciso. Lasciando il Foro Italico incontra un ragazzino che gli corre incontro per strappare un cimelio: va tutto bene per lui, da un polsino a una maglietta. Panatta ha il suo fascio di racchette sotto al braccio e il giovane la butta lì: "Adrià me ne regali una? Una sola, dai...". Il campione azzurro lo sorprende: "Senti, te le regalo tutte, te le regalo, tanto a me non mi servono più". E consegna le sue Wip all'incredulo teen-ager. L'ultima "veronica" dell'imprevedibile Adriano.
Cori razzisti, chiusa la curva dell'Inter. Lo ha deciso il giudice sportivo dopo i cori contro alcuni giocatori della Juve. La squalifica riguarda il secondo anello verde del Meazza. La sanzione sarà scontata in occasione della sfida con la Fiorentina del 26 settembre. MILANO - Il giudice sportivo ha disposto la chiusura di una parte della curva dell'Inter nella prossima gara casalinga dei nerazzurri. Il provvedimento, che riguarderà il 'secondo anello verde', è legato ai cori razzisti intonati durante il match Inter-Juventus di sabato scorso. Il settore sarà vuoto quindi nella gara Inter-Fiorentina, in programma il 26 settembre. La società nerazzurra è stata condannata al pagamento di un'ammenda di 15.000 euro. Il giudice sportivo spiega che "alcuni suoi (dell'Inter, ndr) sostenitori, collocati nel settore dello stadio 'secondo anello della curva nord'" hanno"rivolto a due calciatori della squadra avversaria , al 15° del primo tempo, al 10° ed al 15° del secondo tempo, grida e cori espressivi di discriminazione razziale". Nello stesso match, inoltre, alcuni sostenitori hanno "indirizzato reiteratamente un fascio di luce-laser verso l'Arbitro e verso calciatori della squadra avversaria, nonostante l'invito ripetutamente radio-diffuso a desistere da tale riprovevole comportamento". Nel corso dell'intervallo, poi, è stati "esposto uno striscione dal contenuto insultante nei confronti dell'allenatore della squadra avversaria". Sotto, Anfield nel 1912
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