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Super vintage per ingannare l'attesa... - da Un Cuore Grande Così il 15/09/2013 @ 11:56

(da: lacrimediiborghetti.com) "Un pomeriggio allo Zini", di Andrea Cisi. Dopo il grande successo di Roberto Bolaño, prosegue l'incursione di Lacrime di Borghetti nella letteratura calcistica di qualità con uno dei racconti più divertenti mai ambientati in un curva - in questo caso, la Sud dello Zini di Cremona. Quella che segue è la prima parte (sabato uscirà la seconda) di "Un pomeriggio allo Zini", magistrale racconto di Andrea Cisi apparso nell'antologia "Ogni maledetta domenica. Otto storie di calcio", pubblicata nel 2010 da Minimum Fax e curata da Alessandro Leogrande. La classica domenica da stadio grigiorossa (ma così simile a così tanti altri colori), popolata da gente bizzarra, caffè Borghetti, cori poco comprensibili e misteriose apparizioni del mito Alviero Chiorri; e anche, per noi, un modo per rendere omaggio alla Cremonese, una squadra che ha segnato la nostra infanzia (chi non ha sognato i capelli alla Dezotti?) e di cui da troppo tempo non abbiamo notizie. Buona lettura, non prima però di aver ringraziato sentitamente per averci concesso i diritti e per la collaborazione sia gli amici di Minimum Fax, in particolare la fantastica Lorenza Pieri, che la Berla & Griffini Rights Agency.

"Un pomeriggio allo Zini" (prima parte).
Cremona è inghiottita da una nebbia densa e odorante di pioggia.
Mi muovo sicuro per le strade acciottolate del centro in direzione Foro Boario, la sciarpa legata al collo sotto il bavero, bene attento a evitare i posti di blocco dei vigili, anche se sono in bici. È primo pomeriggio ancora, ma il borgo è sulla sponda sinistra del Po, sotto corrente, tempo che finisce la partita la nebbia non se n’è andata, sicuro come l’oro.
Oggi dalle paludose risaie piemontesi, sempre se trovan la strada, arriva il Novara a battagliare per la serie B. Il piazzale del Foro Boario è un muro grigio di foschia, lo Zini vi appare dentro a macchie, come una visione onirica un po’ confusa.
Rebecchi e io ci troviamo alle biglietterie della Sud.
«Oh...», lo saluto.
«Oh...», mi saluta lui.
«Com’è?», chiedo.
«Come cazzo vuoi che sia?»
Rebecchi è edicolante, lavora sei giorni e mezzo su sette, dalle 6 alle 19.45. D’inverno gela anche con la stufetta, d’estate gli si scioglie la faccia dal caldo, nel gabbiotto. Una notte gli han pitturato dei cazzi arancioni sulla serranda con scritto «sfogliami questi edikolante di merda» e c’è un vigile incagnito che da due anni gli sfonda i testicoli perché parcheggia lo scùter portagiornali sul marciapiede. Vuol vendere l’edicola ma non ci riesce.
«È bello vendere giornali?», gli ho chiesto una volta.
«No», ha detto. «Son diventato ultras per colpa dell’edicola, mica per fede».
Sì, perché l’ultras è un animale che a volte nasce per implosione nervosa.
Alle casse io faccio la coda e prendo il biglietto. Rebecchi ha l’abbonamento, perché l’ultras ha l’abbonamento, a volte deve seguire i ragazzi in trasferta.
Domenica scorsa è andato a Pavia, match d’alta classifica, c’era ancora la neve raccolta a bordocampo. È partito con uno dei pullman del coordinamento insieme al Macellaio e a Sabani. Il Macellaio lavora all’Esselunga, Sabani si chiama così perché fa le imitazioni, di solito le fa male. Fa soprattutto cartoni animati e parenti, parenti suoi.
«A Pavia ha imitato sua mamma», fa Rebecchi ridacchiando, «uno spasso...»
Cremona-Pavia son quaranta minuti di strada. I pullman degli ultras, domenica, son partiti quattro ore prima.
«Noi ultras, lo sai bene», spiega, «anche per un’ora di strada dobbiam comunque ubriacarci e fumare, fermarci a pisciare e cagare e vomitare dappertutto, due soste al Grill, ingurgitare un Camogli una birra e un Concertino, lasciare i segni sui muri dei sottopassi con lo spray, rubare si deve, rubare...sennò che ultras di merda siamo?»
«Avete fatto bene, avete fatto», dico sincero.
Mi chiama al cellu Popoìto l’Etrusco, dice che ci vediamo dentro, nebbia permettendo, che se riesce mi porta il phon che gli ho prestato ieri al calcetto.
«In curva me lo porti?», polemizzo.
«Sì, tanto alla perquisa riesco a portarlo dentro, basta che butto gli accendini».
L’accendino in effetti è sempre l’unico snodo cruciale.
Entrando incrociamo Marrachèsc, un ragazzo marocchino che lavora con me alla fabbrica, c’è tutto il suo clan intorno a lui, tutti giovani, alti e magri, color muschio, tutti cugini, facce da galera, pizzaioli e piastrellisti, tifosi grigio rossi di brutto. Ci abbracciamo.
Lo sbirro appostato dietro il tornello valuta me e loro, quindi si concentra truce su di me. È meridionale, cattivo, in assetto, sigaretta marrone in bocca, visiera, manganello e spray.
Clint Eastwood.
«T’hanno già fatto?», digrigna violento.
Faccio di sì con la testa, automa.
Mi fa passare senza toccarmi. A saperlo portavo dentro cento chili di tritolo, così per il gusto di provarci.
All’edicolante Rebecchi invece gli fan rivoltare anche le asole dei bottoni, sarà la sua aria da bravo ragazzo che non convince. Gli trovano sette accendini, uno ce l’aveva in bocca, glieli fan buttare. Lui ne aveva otto, l’ultimo non gliel’hanno visto, ce l’aveva stretto in mano.
«È sempre più dura fregarli», mi fa.
«Non fumi neanche».
«Lo tiro».
Dentro l’atmosfera è miracolosa, non c’è un filo di nebbia,da curva a curva è tutto nitido. Lo Zini è una perla luminescente in fondo al mare scuro.
C’è il solito caos umano, gente che va di qua, gente che va di là, chi sale, chi scende, piumini, torsi nudi, occhiali da sole, sciarpe di lana per i rognosi, sciarpe di raso per i fighetti, tatuaggi, profumo di ganja, volantini ombrelli birre nei bicchieri di plastica giornali borsine maniche fatte su e una calura congenita che ristagna sotto l’apparente frescura, un’afa che sale dal cemento, anni di pelle sudata e culi seduti che mantengono torrida la temperatura di questo microambiente con qualsiasi stagione.
Ci sistemiamo, posizione centrale, sopra il nucleo ultras, raggiungendo Sabani e il Macellaio che stanno già parlando di cose serie, la figa e le bistecche di scamone. Sabani sta imitando il cuoco Marrabbio, papà di Kiss me Licia. In tre lì intorno ridacchiano.
Il panorama è sempre quello, bello colorato a tinte forti, il cielo grigio di nebbia che non scende, il manto verdissimo che ci fa onore, i raccattapalle minorenni in casacchina rossa che palleggiano, i fotografi con la pettorina gialla, il fallo di plastica rosa enorme con su scritto «ciao mamma» che un tifoso sventaglia allegro. Le maglie dei nostri son belle grigiorosse, stan da dio sul verde, quelle blu elettrico del Novara invece sono un po’ troppo psichedeliche. La Sud è pienotta, il rettilineo dei Distinti si sta riempiendo piano piano, la tribuna coperta si riempirà cinque minuti prima del fischio, la curva Nord invece è completamente deserta.
«Se non hanno il satellitare...», dice l’Orlando dubbioso.
Con l’Orlando c’è la Samànta. Lui è un ex sindacalista Cisl-Fim, nonché ex tossico delle casermone popolari del Borgo Loreto, uno che ancora s’infiamma per nulla, che porta molti anelli di bigiotteria e la cui età va sui quaranta ma non è certa sotto la pelle rugosa. Lei vive di Cremo, smalto per le unghie e musica melodica. Si son conosciuti da piccoli in colonia a Torre Pedrera, son sempre rimasti insieme nonostante il passato burrascoso di lui.
Ci raggiunge anche Maschio, col suo passo da carrarmato e quella barba e quei capelli da cavernicolo piantagrane. Una quercia con gli occhi.
«Oh...», ci saluta.
«Oh...», rispondiamo tutti.
«Com’è?», gli butto lì.
«Alla cazzo», fa nervoso. Ha la sciarpa legata al polso e stringe le labbra.
«La Daria?», chiedo.
«La stronza? Tre mesi ormai che sta dai suoi...»
«E la bimba?»
«La bimba sta con lei».
Resto zitto, a corto di risposte. Gli altri ascoltano in silenzio pure loro, hanno con lui meno confidenza di me, e Maschio è uno che è meglio non fare alterare.
«Qualcosa dovevate pur fare», azzardo, «erano più le volte che vi mettevate le mani addosso che quelle in cui andavate d’accordo».
Maschio non risponde, abbassa gli occhi sul terreno di gioco. Manovra carriponte al tubificio, un lavoro da cazzuti. Se c’è da spaccare acciaio a colpi di mazza lui è il primo, sgobbare non lo spaventa, ma parlare della sua bambina che non vede più troppo spesso lo spegne.
Lasciam cadere la cosa e torniamo a guardarci intorno. Vedo tutta la ciurma dei compagni del calcio amatoriale, ex compagni di scuola, colleghi di lavoro e i soliti affezionati, il Villetta Grùp e la loro aria brigante, il taciturno Vusamìa (non gridare!) arroccato nel suo «clan Castelleone», il tizio detto BusNavetta perché guida i pullman, il Morobiondo, i fasci inquietanti del ROV e uno che chiamano Chìcula (piccolo cappero da narice), che a volte prendono a sberle sul coppino ma solo gli amici intimi possono, se lo fai te ti prendono in venti e ti spaccano di botte. Individuo anche Popoìto con basette etrusche e birretta in mano, il valchirio Adès-Adès (OraOra) e Flo, il «liutaio albino», mentre giù alle ringhiere la Uoma, un curioso incrocio tra un ultras e una donna, sta strangolando con la sciarpa invernale di lana un vecchio inerme. Pare sia il suo papà.
C’è pure un sacco di sbarbatelli con le sciarpette di raso, tutti presi bene, pettinati con la piastra. Ce ne sono quattro in fila di fianco a noi. Uno magrino e alto sui dodici anni sputa in terra come un cammello, il più basso e vicino a noi invece ne avrà quattordici, ha i baffi da ometto, la panza da camionista e una Coca-Cola in mano, ci fa le bolle dentro. Son teneri da vedere, se li guardi due volte però si fanno minacciosi.
«Quando noi avevamo la loro età in panca c’era Mondonico...», s’immalinconisce Sabani facendo la voce di Calimero.
«Eh...», geme il Macellaio, «...davanti avevi Alviero e Nicoletti, mica Campolonghi e La Cagnina come oggi».
Solo a sentir nominare Alviero Chiorri tutti gli ultras intorno a noi si fanno devoti un segno della croce, uno sbaglia lo fa al contrario, un altro dopo bestemmia, un terzo dice anche amen.
Poi sento l’urlo di un megafono, giù nel «nucleo».
Quindi lo vedo.
Töna!
Un soprannome che non vuol dire assolutamente nulla.
È lui, è rientrato nei ranghi! La sua sciarpa avvolta fino alle labbra, la sua pelle di un roseo provato dalle ingiustizie della vita di provincia, la sua vaga somiglianza a Max Pezzali ma più bello. Il ritorno della leggenda, il maestro di tutti i capi ultras, il dio dell’entusiasmo da spalto, l’uomo della scissione. Della sua vita privata nulla trapela, la sua vera identità è un mistero per il borgo, chi dice faccia il gelataio, chi il dog-sitter per danarosi, chi invece sia uno scrittore affermato e abbia localini sulle spiagge di tutto il mondo. Oggi rientra in seno alla famiglia. A mesi dalle incomprensioni interne tra fazioni grigiorosse, oggi finalmente c’è il ritorno del condottiero.
«La senti l’agitazione dei gladiatori maschi della curva?», chiedo all’Orlando.
«Sì».
«Lo senti l’ormone che viaggia come un fiume in piena?»
«Sì, m’innervosisce».
«È la presenza magnetica di Töna!»
«No», fa lui, «mi sa che in tribuna c’è Luisa Corna...»
Tutti a spingersi come bestie ai recinti per guardare verso la tribuna coperta, dove di solito si sistemano i siùri locali e gli ospiti di riguardo. Della Corna nemmeno l’ombra dei capelli. «Potrebbe essere quella là di spalle», azzarda Maschio, «quella in bianco...»
«Quella là è mio zio Oreste», dice uno dei quattro sbarbatelli, con l’apparecchio in bocca.
Restiamo così, un po’ tutti pensierosi.
«Tuo zio Oreste ha un bel culo», commenta poi diretto Sabani.
L’ometto diventa tutto rosso.
La Samànta telefona intanto a un tipo per sapere se le ha masterizzato il cd di Tiziano Ferro. Sorride, annuisce e mette giù.
«Io mi inchino, a Tiziano...», mi fa poi cerbiatta, per giustificarsi.
Ha gli occhi color discarica, come il suo smalto per le unghie.
«Chissà come si gioca?», ci si chiede. «Chissà se mister Roselli usa lo schema “ad abete” del Milan?... chissà quanti gol prende il Grosseto in Liguria?... chissà se ho le ferie per andare ad Amsterdam a chiavare le russe in vetrina, come l’anno scorso?» Le domande che girano in curva, tra i tifosi,
son sempre più articolate.
Un gruppetto sparuto di quarantenni vestiti bene uguali, tipo bancari, inizia subito a insultare arbitro e carabinieri. I «sergenti» di Töna, con classe, intimano loro il silenzio, minacciandoli col segno della gola tagliata. I bancari smettono subito.
Giunge il momento della coreografia, la voce di Töna inizia a tuonare, chiama gli schemi sugli spalti, mentre lo speaker dà le formazioni in campo, da cui apprendiamo che anche oggi il bomber Gioacchino Prisciandaro è in panca, reduce da un infortunio.
Töna è già cattivo al punto giusto, pretende sbattimento dalla curva, pretende voglia. Nessuno però ha ancora neanche per le balle di cantare.
Töna guarda la Sud dal basso in alto, da destra a sinistra, sconcertato.
«CHI NON CANTA DA LEONE», urla bestiale, «GLI VIENE IL CAGONE!»
Tutti a cantare a squarciagola, chi i cori da stadio e chi pezzi a caso, uno anche «Se bruciasse la città» di Ranieri, applaudita a furor di popolo.
Poi i sergenti invocano il silenzio di tomba con dei ssshh…ssshh! che presto dilagano nel mucchio della Sud come un virus, si propagano all’infinito e obbligano i più fragili, tra cui il Macellaio, a una fuga disonorevole giù ai cessi.
«Mi ricorda il rumore dell’olio azzurro che scivola a terra dai cavi dei carroponte, di notte, quando prendi a mazzate il coil...», commenta Maschio con occhi assenti, «...come se l’acciaio sanguinasse...»
Pelle d’oca da timore a tutti i presenti.
Coreografia: bandierone grigiorosso con sopra lo stemma per i 102 anni di vita della società a coprire la Sud intera, sotto tutti noi zitti e nascosti con le sciarpe spiegate e le bandiere svolazzanti, celati a far finta che non ci siamo e invece ci siamo.
«Stiamo sotto il bandierone», penso, «come Cremona sta nella nebbia. Sepolti...»
Si inizia a tirare giù il pesante bandierone a colpi di dita levate, gridando un crescente «oooooooo...» di massa. Un tizio zoppo su in alto sbaglia i tempi e prende a cantare in anticipo: «Squadròoon, squadròoon, squadrone uno solooo...»
Töna lo fa prendere da due dervisci glabri, muscolosi e tatuati e scaraventare giù dallo spalto più alto, sul retro. Scompare nella foschia ma sentiamo il ciocco tipo melone maturo sul cemento del parcheggio.
La curva ammutolisce.
Ma è un attimo. Si riprende urlando e cantando a ritmo, quando tiriamo giù del tutto il bandierone la partita è cominciata, ci dimentichiamo invasati del corpo e delle sirene di ambulanza giù dabbasso e sventoliamo le sciarpe, le stiamo sventolando in dieci, mi vergogno anche di farlo, dopo un po’.
Grigiorossa la Cremo, blu elettrico il Novara. Il nostro portierone Mondini si distingue, un arancione-nero che stona, sembra un elettrauto.
Mi concentro sul gioco, ma dietro di noi passa la Uoma. Si ferma, con la mano scruta l’orizzonte della curva, cerca qualcuno di nome MaDài. Si domanda a voce alta dove sia quel gran bastardo, ma in modo molto meno fine. Quando se ne va torno al gioco, ma la voce di Töna è un martello che non si può ignorare.
«Dai rega, oh!», grida selvaggio. «Fuori la voceee, oooh! Dobbiamo andare in serie B (bestemmia)! Dobbiamo metterci la voglia, dobbiamo gridare (bestemmia)! Dai, oooh!»
La partita ha già il binario giusto, tanti recuperati in campo per noi, compreso il redivivo Benin che giostra a metà campo.
«Chi è quello là?», chiede una tipa tosta smanicata a un tipo moscio occhialuto.
«Benin».
«Benigni?»
«Benin, bestia!», urla lui sistemandosi la montatura sul setto. Nasce una piccola rissa localizzata, lei gli strappa le lenti e punta dritto agli occhi, avrà la meglio di brutto.
La Cremo, con Priscia in panca, parte davanti con la solita coppia di capelluti, Campolonghi e Taddei, la cieca potenza e l’imprevedibile estro.
L’edicolante Rebecchi ricorda nostalgico al gruppo il gol che segnò Alviero su punizione al Messina, anni fa, in serie B, alzatosi dalla panca proprio per tirare il calcio piazzato. Un sette preciso preciso, con quel sinistro velenoso dal calzettone abbassato sotto il polpaccio. Preghiera ultras di gruppo in fervente devozione.
Il Macellaio per non sfigurare ricorda allora commosso anche il bellissimo weekend a mignotte sul parmense con Sabani, che per tutta risposta fa l’imitazione di Buzzanca nel Merlo maschio. Poi ridono, solo loro due.
Vedo l’Orlando incupirsi, fissare qualcuno metri e metri sulla nostra sinistra. Mi dà di gomito.
«Oh, ma quello là?», mi fa, indicando un ricciolone abbronzato di profilo.
Guardo bene. Diavoli, pare davvero Chiorri. I capelli, la postura. In Sud... tra gli ultras!
«Se non è lui è Sandy Marton», faccio carico.
«Impossibile», ci smonta Rebecchi. «Che so io, Alviero vive a Cuba da anni».
Titubanti lasciamo perdere, l’edicolante è la saggezza della curva, se queste cose non le sa lui che legge...
Sotto, su una predella di legno, immerso tra megafoni, microfoni e amplificatori, aggrappato all’asta di un bandierone con su un teschio con uno spinello tra i denti, tipo pennone di nave pirata, Töna è in forma strepitosa. Si muove col suo megafono come Achab nella tempesta. Gira voce che il mitico sia arrivato in scùter digrignando i denti e con occhialoni da aviatore crucco, con addosso bombe a mano finte, in spalla cartelloni con su cessi disegnati, tra le gambe stelle filanti color Novara da bruciare, in tasca scritte e quant’altro, ma che accortosi poi dell’assoluta nudità della curva ospite abbia pianto come un bimbo. Tifosi novaresi zero, nemmeno uno. Dalle strade piemontesi nessuna automobile, nessun pullman, dagli sterrati nessun camper. Dalle risaie nessuna piroga.
Töna allora si è seduto, le mani in faccia, poi ha deciso che ci voleva un capro espiatorio, qualcuno con cui sfogarsi, i pulotti basta, non fan più notizia, ci voleva un nome nuovo.
La sorte ha voluto che il portiere avversario, tal Franzese, cominciasse nella porta sotto la Sud.
Se l’è presa con lui.
«Franceeeeseee», ha iniziato fetido col megafonino, «ci sentiii?»
Un tipo basso con la sciarpa dei RedGrey Supporters e con un brufolo grasso nell’occhio ha fatto timidamente notare al dio della Sud che il nome corretto era Franzese.
Töna stizzito l’ha fatto prendere dai due dervisci e buttare nella grotta tossica dei giardini pubblici di piazza Roma.
La curva muta ha potuto udire portati dalla nebbia i lamenti del malcapitato in balia delle unghie zozze dei derelitti del piazzale.
«Seppelliranno i suoi resti sotto l’altalena...», ricorda nostalgico l’Orlando.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna, «ci sentiii?»
Franzese si è voltato di sghembo.
«FIGLIODIPUTTÀAAAAANAAA!», gli ha urlato la Sud all’unisono.
Il portierone ha scosso il capo, deluso dalla maleducazione del tifoso cremonese medio, evidentemente s’aspettava dei ragazzini tutti a modo.
«Franceeeeseee», ha ripetuto Töna ipnotico, «ci sentiii?», e ogni volta era un insulto al povero numero uno.
Il portiere non l’ha capito che si trattava di un gioco, che la curva lo mandava a quel paese ma per divertimento, che gli insultavamo madre e sorella ma in amicizia, che gli si augurava la morte violenta ma con cuore fraterno, non l’ha mica capita.
Si è offeso.
Restando di spalle tra i pali ha alzato il dito medio guantato.
La curva ha smesso di amarlo e ha iniziato a ferirlo con cattiveria, inducendolo a giocare il primo tempo dieci metri fuori dall’area piccola: l’oggetto meno strambo piombato in porta erano i jeans Avirex smunti di un ultras detto Petèra (cavallo basso del pantalone), con dentro ancora portafogli e chiavi di casa. Petèra è rimasto in curva con gli anfibi e il costume da bagno aderente dell’Arena, anche quello a vita bassa.

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"Un pomeriggio allo Zini", di Andrea Cisi (seconda parte).

Tre gradini sotto di noi un tizio di colore bello come un modello e detto Testa di Moro si volta, guarda Sabani e gli urla che gli deve ancora dei soldi e che gli spaccherà il fondoschiena, poi scompare nella mucchia con le mani nelle saccocce. Sabani inizia a sudare.
«È il suo spaccino...», precisa il Macellaio, ma non dice di cosa.
Per distrarci valutiamo e commentiamo la formazione di oggi dopo i primi minuti di gioco, spronati dalla disperazione suicida di un ciccione vestito di nero Iron Maiden che lamenta l’assenza del bomber e implora lo schieramento di La Cagnina.
«Ci vuole La Cagna!», urla rivolto alla lontana panchina, le mani nei capelli unti. «La Cagna ci vuole!»
«Ma dàaaai...», s’inserisce polemico un lungagnone dalla faccia di ramarro, «...La Cagna è un disastro!»
Nasce una nuova microrissa localizzata, col lungagnone che affonda le dita nella ciccia di Iron Maiden come manovrasse un gavettone molle.
Comunque davanti La Cagna non c’è. E meno male, che ultimamente prende più pali che caffè. C’è Campolonghi, invece, e Taddei dietro e Rossini in fascia, tre capelloni. Da lontano sembran tre fotomodelli, solo che Taddei è nano. Gli altri due han la fascetta ai capelli, a guardarli vien fastidio.
«A me han detto che Alviero si era dato al paracadutismo però», insiste l’Orlando, guardando ancora il ricciolone dalla pelle bruciata di sole. «Si lanciava qui in periferia, al Migliaro».
Tutti di nuovo a scrutare il tizio con interesse.
«Bah», fa Rebecchi, «buttarsi si buttava, però mi sa non era paracadutismo, mi sa era più tipo suicidio, qualcosa del genere. Era matto, se non era matto non veniva via da Genova per venir qui in provincia a fare l’idolo».
Muti e curiosi osserviamo ogni respiro del ricciolone, prima di tornare al gioco, mentre la Samànta indifferente fa il pallone con le cinque Vigorsol che ha in bocca e lo fa scoppiare con un plop accattivante.
«Figa, ce ne sta di roba lì dentro, eh?», le urla un borchiato baffuto sei gradoni sopra di noi che poi ride grasso coi suoi amici.
All’Orlando gli va subito a mucchio il cervello, sale furioso i gradoni, tre per volta, spostando la gente. Scompare nel gruppo di provocatori e si vedono le mani con gli anelli che mulinano di brutto. Maschio lo segue senza pensare, si butta in mezzo. I borchiati vengono massaggiati per bene, un po’ le prendono un po’ le danno, ma i sergenti di Töna salgono lesti a sedare ogni malinteso residuo.
Noi, avvezzi a queste scene moderate, si torna a guardar giù. Sembra si giochi bene, oggi. La figura pessima di domenica scorsa a Pavia potrebbe non ripetersi. I capelluti davanti corrono molto e si trovano, Taddei è funambolico, Rossini spinge e Campolonghi punge come un ago avvelenato.
La difesa è una garanzia, Iorio e Bertoni sono due colonne e l’assenza del pelato Mario Donadoni non si sente.
«Gran fisico però Donadoni...», fa la Samànta tutta calda, ma torna l’Orlando con in faccia i segni della rissa e la limona di brutto. Lei toglie le Vigorsol e ci sta, poi le rimette in bocca e fa il pallone.
Torna anche Maschio, ha un orecchio piegato come i cani legnati e due borchie in mano, le tira con rabbia a un fotografo a bordocampo.
In mezzo al campo il canuto Strada è regolarissimo e Furiani mostra grande sicurezza e buona tecnica, ma il Novara è davvero poca cosa, vede l’area grigiorossa solo col binocolo.
A un certo punto Bertoni riceve un colpo, crolla al suolo, ci resta agonizzante. Giaccanera non ammonisce il novarese cattivo e la folla inferocita gli grida: «Gnurànt!» (zoticone), mentre l’Orlando, ancora infuriato, si strappa altezza tasche i jeans a mani nude e la Samànta al telefono col solito tizio gli chiede se ha anche i Sonohra e l’ultimo degli Zeroassoluto.
«Io», mi fa tenera, «ai Sonohra mi inchino».
«E agli Zeroassoluto?», chiedo guardandola.
Sbam! Gol di Iorio!
Almeno pare, perché io ero girato...
Spalti in fiamme! Delirio!
«Com’è stato?», chiedo al Macellaio.
«Stavo telefonando alla Svetlana...», fa lui affranto.
«Com’è stato?», chiedo a Rebecchi.
«Stavo cercando una Gazzetta in terra da mettermi sotto il culo!»
«COM’È STATO?», grido a Sabani.
«Ero seduto per nascondermi da Testa di Moro!»
Nessuno l’ha visto! Robe da non credere. È che in Sud bene o male hai da fare dell’altro, che non sia seguire il gioco. A volte ti perdi il bello che c’è.
La folla comunque esplode, la curva da curva si fa dritta, il Villetta Grùp si spacca sulla testa lattine di Foster’s da 50 cl piene portate dentro pare da un cane poliziotto doppiogiochista addestrato nel quartiere Villetta, la frangia Castelleonese viene su, il ramo Casalmaggiore va giù, il ROV si strappa le magliette mostrando cicatrici e bruciature di mozziconi e Töna cade preda del misticismo e inneggia al gran gol.
E io me lo sono perso!
Inferocito fisso la Samànta.
«Agli Zeroassoluto sì», fa candida, «io m’inchino».
«Adès busoògna usaà! Adès!» (ora bisogna far sentire la voce, ora), grida il valchirio AdèsAdès senza bisogno di megafono, mentre sopra di noi transita Bodini, capotecnico della S.M.M. Impianti, ditta che produce trapani a colonna di altissima precisione. Anni fa giocavamo assieme negli amatori. È un nano che se ti prende tra le braccia ti spezza come un ramoscello, i muscoli litigano con la maglietta, sta ancora esultando come se il gol l’avesse fatto lui.
Mi vede, alza il pugno e grida carico come un missile. Ci raggiunge scavalcando gradoni e pestacchiando qua e là giovani ultras coricati in terra.
«Oh Bodo», saluto. «Com’è?»
«Tutto bene», urla ancora, sgomitando Sabani e appicciando una MS, «siamo chiusi!»
«Come chiusi?»
Annuisce mesto alzando un sopracciglio. «Cassa integrazione», spiega, «così di colpo il lavoro è sparito. Strategia mi sa, perché i padroni invece son sempre in giro per il mondo».
L’Orlando s’infiamma di nuovo, era pur sempre un sindacalista. Per consolarsi tira un altro giro di limone alla sua Samantona, fanno un rumore di risucchio tipo gorgo nel lavandino che io e Bodo tratteniamo un brivido perverso di piacere.
«Ci sto dentro alla grande», sorride Bodo, «prendo l’ottanta per cento per stare a casa e intanto lavoro in un bar al mio paese, a fine mese metto via due volte quel che mettevo via prima e ho le mattine libere!»
Saluta e se ne va.
Penso confuso alla fabbrica dove lavoro e ai giorni che verranno. Meno male che la selva umana della Sud è uno spettacolo folcloristico. Mi guardo un po’ attorno, c’è tutta la società cittadina fianco a fianco, padroni e operai, impiegati, spedizionieri, bancari, tossici, studenti e fancazzisti, gente che sta bene e gente che sta male. C’è di tutto, qui dentro. Ogni curva Sud del mondo è un microcosmo di inimmaginabile valore scientifico.
Anche la Nord però, alla fin fine, ci regala emozioni.
Nel deserto novarese delle gradinate color cemento bagnato, verso la fine del primo tempo, appaiono tre tifosi: un Indeciso, un Copione e un Uomo Camaleonte. I primi due in bianco, il terzo colore degli spalti. Osservo per un poco i loro movimenti, mentre Rebecchi dice che l’ometto accanto a noi, il quattordicenne coi baffetti, sta ascoltando la sua Coca-Cola con l’orecchio.
«Cosa fa il Mestre?», scherza, ma quello si spaventa e non risponde.
In Nord l’Indeciso va su e giù, piano piano, cammina sui gradoni, cerca la posizione in cui mettersi in quel deserto, ogni tanto si siede, estrae un giornale e lo legge, poi si alza e cambia posto. Copione aspetta che Indeciso si sposti, subito dopo lo copia. Si sposta anche lui uguale, lento uguale, quando quello legge lui finge di leggere.
«Oh ma cosa succede di là?», si chiede tra sé Töna a microfono aperto. «Oh, ma guarda quei due esauriti bianchi là, oh, il matto e l’infermiere, oh!»
Nessuno ride.
Töna guarda serio la curva.
Tutti ridono.
L’Uomo Camaleonte intanto è scomparso. Ma se guardo bene vedo il suo tronco, solo quello però, i pantaloni son dello stesso colore nebbia del cemento bagnato dei gradoni, svaniscono.
La Samànta, nel tripudio infernale di cori, chiede al telefono al solito tizio se le procura i biglietti per il concerto milanese di Eros. Mi volto verso di lei.
«Eros?», chiedo polemico.
Sbam! Gol di Manucci!
Lo stadio vacilla, la gente limona a caso, ci si fidanza, si squarciano ugole a forza di gridare per il bellissimo gol di Manucci.
E ANCHE QUESTO ME LO SONO PERSO!
Mi copro il volto con le mani. La Samànta mi mette una mano sulla spalla.
«Inchiniamoci», mi dice, «inchiniamoci al mitico Eros!»
La curva traballa. I giovani scapestrati del Collettivo Radioattivo aprono bustine con dentro coriandolini dai mille colori, qualcuno lo lanciano nel cielo, qualcuno lo mettono sotto la lingua; il Villetta Grùp prende un vecchio a caso, lo alzano e gli fan fare Goldrake su e giù dai gradoni tra la folla, si sente scricchiolio di femore incrinato e odore di svuotamento posteriore da tensione, poi si rompono e lo scaraventano oltre la recinzione, dietro i cartelloni pubblicitari in campo, dove i poliziotti lo salvano dai cani per un pelo.
Il povero Franzese viene seppellito di saracche da un Töna ispirato, mentre la Sud intera balla la tarantella e devota gli canta: «Su tua mamma noi saltiamo su tua mamma noi saltiaaamooo...»
Piiiiip. Fine primo tempo, partita dominata, tutto sembra funzionare per il meglio. Nell’intervallo gli ultras ne approfittano per distrarsi giocando a «Re-Boia», un curioso intrattenimento in base al quale schiccherando un pacchetto di sigarette vuoto sul bordo del gradone, a seconda di come ricade tu sei Re, Schiavo o Boia. Lo scopo è darsi un sacco di sberle a vicenda per ridere un po’, qualcuno fa anche il carrarmato sulle nocche o la tortura della matita tra le falangi da schiacciare. Si diverton come pazzi, gli ultras, un paio finiscono diretti in ortopedia.
La Uoma intanto chiama ancora a gran voce questo
MaDài usando complimenti degni di un anticristo. Sabani e
il Macellaio rivelano invece che il prossimo weekend andranno
a Milano Marittima.
«’Zzo andate a fare lì invece di essere a sostenere i ragazzi nella trasferta di Frosinone?», chiedo.
«Andiamo a far tavolo al Pineta!», fa Sabani.
«Con le russe!», precisa il Macellaio.«Svetlana aspettaci!»
Passa il Microlavorante, un mulettista magazziniere lungo un metro e mezzo, mi racconta della trasferta a Sassari tre settimane fa, erano in cinquantacinque sul traghetto e in quaranta han vomitato per il mare mosso. «Vomito dappertutto!», mi fa, poi va via a cercare della ganja giù nei cessi.
«Ma... nei cessi dello Zini?», chiedo a Rebecchi.
Allarga le braccia, fatalista.
«So anche di gente che laggiù ha rimorchiato», conferma, «e di uno che è andato a pisciare ha trovato un cobra rarissimo, lo ha ucciso a mani nude».
Intanto Töna giù al microfono borbotta lieto di come sia strano dopo mesi di assenza riprendere in mano la situazione, per aiutare i giovani capi che si devono fare le ossa.
«Mi vien voglia di cantare un pezzo vecchio, oh», si commuove, «non lo canto da quindici anni oh, Pirulì Pirulàaa, ecco a voi Sandra Milo con i Piccoli Faaaans!»
La curva si interroga sul significato, e ama Töna per la sua incomprensibilità, tipica delle leggende.
Sul nostro gradone transita Valo, albanese doc, un losco figuro noto in città, specie nelle discoteche. Sceglie Maschio, gli sussurra che se cerca «la zia» lui ne trova, roba buona, ma non dentro lo Zini no, ci sono i cani. Fuori, al parcheggio. Maschio lo manda avanti a male parole e spintoni, li separiamo, Valo finge di subire ma sappiamo tutti che il rischio poi è uscire e trovarne dieci, di albani pronti a ripassarti. Però i loro traffici li fan fuori, gli albani, che lo sanno che se i capi ultras si accorgono di loro li fanno sparire qui in curva, gli albani, per sempre.
Maschio si rilassa appicciando una siga, guarda il cemento, seduto, nessuno lo interpella. Sta pensando alla piccola, glielo leggo nel portamento rassegnato delle spalle, nel pulsare delle vene negli avambracci. La vita vera si è fatta largo nella foschia esterna e lo ha scovato per un istante nella bolgia dello Zini.
Da sotto, accanto ai tamburi, vedo alzarsi Popoìto e cercarmi con lo sguardo etrusco di terracotta. Lo saluto con un cenno, lui innalza il mio phon al cielo, lo sventola, lo dà a una tizia coi capelli color puffo e mi indica, poi si siede. Dopo un istante vedo il mio phon spostarsi di mano in mano, ogni persona che lo passa si alza e mi indica al successivo. Il lungagnone con la faccia di ramarro si alza e dice: «Ma dàaai, un phon? Ma dàaai...», e stavolta la Uoma lo blinda. «MaDài!», lo chiama, poi lo carica di parole e lo raggiunge. Limonano.
Nella filiera del phon c’è anche il tizio di colore detto Testa di Moro, che non indica me, indica Sabani con espressione omicida. Ma com’era purtroppo prevedibile, il cammino del mio phon si interrompe bruscamente nei pressi di una fila di schiene nude da scaricatore di porto, tutte tatuate, tutte sostenenti un cranio glabro e sudato. A marzo. Uno solo si volta a guardare se oso dir qualcosa, ha la faccia da killer. Gli faccio segno che hanno il mio phon, mi fa segno piuttosto violentemente che non sa di cosa io stia parlando, che se voglio
posso andar giù a discuterne con loro sette, quando voglio.
Maschio stesso mi fa cenno di lasciar perdere.
Mi chiama Popoìto al cellu. «È arrivato?»
«No. Si è fermato nel bel mezzo dei Longobards, ci vai te a fartelo ridare dato che è mio e ce l’avevi in prestito?»
Cade la linea.
Contemporaneamente parte un coro generale di sostegno al gemellato Ravenna, di cui ci sono due esponenti bizzarri, ubriachi e probabilmente fasulli.
«Ma da quando siamo gemellati?», chiede un tizio butterato giù tra gli ultras.
Töna lo fa prendere e gettare in pasto ai cani lupo del Foro Boario, tra i quali c’è anche il suo, la Gina. I gemellaggi non si contestano.
Torno a osservare il ricciolone abbronzato, che se è Chiorri davvero corro là a leccargli le scarpe.
Piiiiip. Secondo tempo. I due novaresi assurdi sugli spalti di là, i due visibili, innalzano subito uno striscione antisportivo su Cremona. A Töna e ai suoi sergenti gli esplode subito il cuore dall’indignazione, parte una raffica di cori tribali che parlan piuttosto male dei novaresi e delle loro parentele femminili, tra cui una splendida e violentissima versione di «La guerra di Piero» by Töna © che ci lascia di pietra anche noi, la canta lui da solo al megafono, sembra Braveheart!
Noi siamo in balia, lui ci verga tutti.
«Dai rega, oooh! (bestemmietta) Devono essere quarantacinque minuti di guerra! DAAAI! FUORILEVOCI! (bestemmiaccia contenuta) E CHI NON BATTE LE MANI MUORE DOMANI!»
Tutti a battere le mani di brutto.
Il secondo tempo parte in sordina, il ritmo è blando, rende il match noioso. La partita è di serie C1, bene o male ti aspetteresti il bel calcio fino alla fine, invece nel mare quieto e confuso del gioco, della partita ti arrivano solo pochi dettagli, colti tipo fuochi artificiali nella notte nel tramestio della curva, che è animale a sé stante e fa casino e ti distrae. Campolonghi non ferma più un pallone e protesta, Taddei sembra un invasato, o è in terra o fa il fallo e Strada finalmente dimostra la sua veneranda età, a guardarlo bene sembra uno dei Pooh, fatica anche a protestare. Che se non fossimo già 2-0 penseresti: «Hai voglia, ritornare in B giocando così...»
Ma ecco che, proprio quando meno te l’aspetti, il boccheggiante Strada inventa un gran numero inaspettato addomesticando sulla tre quarti avversaria il fùbal, uccellando il solito povero Franzese in uscita e imboccando un’autostrada deserta che conduce alla porta. E con lui è tutta la Sud a correre verso la rete, le recinzioni sotto gli spalti iniziano a tremare, decine di ultras a torso nudo nell’immobile cielo di marzo stanno a cavalcioni delle ringhiere dentate come colossi sudati e bramosi, le punte acuminate a strappare i jeans e la carne, sventolando ingobbiti sciarpe e urlando bestemmie a Strada per incitarlo alla corsa.
E Strada insacca, e la gente gode.
La B è più vicina, la nebbia schiaccia lo Zini sotto un cuscino claustrofobico e la Sud è una girandola di cori e braccia che mulinano.
«SULEMANIII!», urla Töna quando l’entusiasmo si quieta.
«Uno... due... tre... CREEE!... Oh rega, davvero, ieri sera ero alla Pergola in via Tonani e Guido ci ha fatto gli spaghi ai tre sughi e ha tirato fuori il Sangiovese che tiene giù in cantina, oh, quel rosso lì farebbe sbrodolare un cadavere e uno...due... tre... MOOO!... ’iga oh, rega, lo striscione più bello oggi è quello per Priscia con su “vi Prisciamo addosso”, ’iga oh, come me da piccolo all’oratorio col don, bellissimo oh, vince l’abbonamento stagionale al “giornalino della curva” per il 2005 che viene e Franceeese (bestemmia) rotto nel (parolaccia) pezzo di (parolaccia fecale) e uno... due... tre... NAAA! CRE-MO-NA! CRE-MO-NA!»
Ma attenzione! Sugli spalti di là qualcosa si è mosso... la Sud ammutolisce di colpo. L’Uomo Camaleonte si stava mimetizzando con le ringhiere verdi della Nord, ma improvvisamente ha perso la concentrazione e si mostra, perché proprio non ce la fa, alza repentino una mano per mandare la Sud a quel paese. La Sud non lo aveva ancora visto, ma ora si accorge anche di lui.
E l’Uomo Camaleonte scompare di nuovo.
«Oh rega, avete visto tutti?», chiede Töna lento, ma tutti scuotono la testa increduli, pensando al miraggio di massa.
Ripassa il Microlavorante, confuso tra gli ultras giovani.
«Vomito», fa scuotendo la testa, «c’era vomito ovunque, un traghetto impresentabile!», e mesto si fa inghiottire dalla massa.
A dieci dal termine una specie di magone prende la Sud, l’entusiasmo «a tutti i costi», come dire, inizia a scivolare via dalle vene.
Prima di andarcene Töna grida al popolo: «Dai rega oh, su le mani, contiamoci oh, vediamo quanti di noi domenica vanno a Frosinone a sostenere i ragazzi, dai oh, SU LE MANIII!»
Due.
Töna crolla seduto tra i suoi tamburi e i megafoni, in lacrime impotenti.
Cori cattivi soliti per le forze dell’ordine, buoni per i pompieri e per il mister, cattivi per l’emittente locale e per un paio di giocatori novaresi, buoni per il bomber Priscia e per Luisa Corna e via, si esce piano piano, lenti lenti tra i tornelli, a reimmergerci nella nebbia, controllando che il ricciolone abbronzato davvero non sia Alviero.
Non è lui, visto di fronte è uguale a Renato Zero.
Sui muretti del Foro Boario il clan albano di Valo aspetta noi, ma intorno al mio gruppetto c’è anche Marrachèsc coi suoi, le due bande non si pestano mai i piedi in città e tutto fila via liscio. Si resta con tre punti e la sensazione strana di una felicità piccola ed estemporanea, ma che ti riempie almeno questa fredda serata. E qualcuno, approfittando della cortina di foschia, per abitudine va a fare a inutili cornate con le camionette dei celerini al piccolo rondò di via Mantova, e Maschio è tra i primi. Ci lascia indietro, noi tifosi mediocri, spettatori inermi, corre al rondò con altri venti a urlare di rabbia e a tirar lattine vuote ai blindati, senza senso, senza scopo. Urlano e tirano.
E il manganello colpisce.
Maschio è grosso e cattivo, però è lento. Un minuto dopo è in terra, seduto sull’aiuola del rondò, si tiene incredulo una tempia, è stordito e sta sanguinando.
Lo osservo un istante, tutti via a rotta di collo, io vorrei avvicinarmi ma vorrebbe dire solo prender colpi. Mi accorgo che è sconvolto, ha lo sguardo fisso oltre la linea difensiva dei militari, mette a fuoco la vista, offuscata dal colpo.
Sembra guardare qualcosa che non c’è, il respiro affannoso. Muove una mano in avanti, come per toccare con le dita qualcosa di morbido. La piccola, forse. Poi viene preso di forza e caricato su una camionetta.
I celerini disperdono i pochi provocatori rimasti. Noi ci defiliamo giù lungo via Pippia, conduco a mano la bici e ho un piccolo magone che mi macina lo stomaco. La nebbia inghiotte ogni centimetro d’asfalto di Cremona, arrivata stamani dai fossi, uscita dai muri, salita dai tombini, scesa dalle cime alte degli ippocastani.
Lo Zini è scomparso definitivamente alla vista.
Passano motorini con su tre persone e auto che strombazzano con le sciarpe grigiorosse strozzate nei finestrini e nei bauli, e passa Popoìto in bici che mi saluta simulando una piega ai capelli. Si ritorna appagati ma mesti e stanchi, si pensa a ufficio, fabbrica, ferrovia, alle mogli e ai figli, alle morose, al Grosseto che palpa il La Spezia in trasferta, alla vita vera, quella di ogni giorno che ti aspettava dietro le muraglie grigie del Foro Boario.
Sirene, canti, saluti.
«...Oh Rebecchi, ci vediam domenica l’altra...»
«Oh...», mi saluta lui.

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Lacrime di Borghetti - da Un Cuore Grande Così il 14/09/2013 @ 16:42

1997 o l'anno in cui iniziai a sentirmi sinistro (solo due o tre flash di un Bildungsroman) (da: lacrimediborghetti.com). Quello fu il primo anno in cui frequentai con assiduità il negozio di dischi usati a piazza Mancini e l'ultimo in cui andai - poche centinaia di metri oltre il fiume - allo stadio con mio padre (conservo ancora i biglietti di carta). Il primo in cui iniziai a leggere con frequenza i libri che volevo (Brizzi, Ammanniti, Bukowski) e l'ultimo in cui frequentai le discoteche del centro aperte il sabato pomeriggio. Il 1997 è stato un anno di dubbi interiori e crocevia esistenziali. Prendevo il 910 e scendevo al capolinea. Con trenta o quarantamila lire recuperate dai nonni al sicuro nella tasca aderente del jeans pariolo - probabilmente un Cou cou, una marca che vendeva solo Fauro street, ma che il baffo di piazza Gastaldi faceva pagar meno - entravo nel negozio e iniziavo, con timidezza, a spulciare tra le copertine. Erano infilate in schedari rossi di finta-pelle, disposte in rigoroso ordine alfabetico. Non parlavo quasi mai con il barbuto proprietario perchè m'intimoriva, così come durante gli anni delle medie m'intimoriva quel piacione del proprietario di Città 2000, che però vendeva solo dischi nuovi, e di merda (lo odiavo, quello stronzo con le basettone e ho goduto quando è fallito). All'epoca il negozio era grande e c'era un buon ricambio di cd. Certo, non era come Disfunzioni Musicali, ma tanto lo spazio di San Lorenzo aveva chiuso e io non potevo più provare l'ebbrezza di tornare in tram accarezzando Catartica. Prima di andare mi preparavo a casa con il mio raccoglitore verde in cui conservavo i ritagli di Musica!, l'inserto di Repubblica che per me ha rappresentato una specie di Bibbia. Poi c'era il video beccato per caso nella programmazione di MTV o Videomusic, ma bisognava essere fortunati ed aver appuntato il nome del gruppo su un pezzo di carta prima che partisse quello successivo. Essere indie non era come oggi, era un lavoro a tempo pieno. Te la dovevi guadagnare la tua nicchia. Nel negozio, mettevo da parte le schede che m'interessavano, formavo una pila traballante, e alla fine ne sceglievo una. Una e una soltanto. Di più non potevo permettermi. Quello era il momento fondamentale: per un mese avrei ascoltato solo quel disco. Se sbagliavo, erano cazzi.
Anche se uno tra Cafu, Zago, Aldair e Candela sbagliava il fuorigioco erano cazzi. Prendevamo gol due volte su tre (la terza corrispondeva a un miracolo di Konsel). Con l'Inter, in casa, successe così. Due volte un tappeto rosso per Ronaldo e due volte a maledire Zeman con mio padre. La croce sulla nostra stagione (paradosso volle che l'ultima partita vista allo stadio con lui - mio padre - fu proprio il Roma-Inter dell'anno successivo, e quei cinque gol presi tipo giostra impazzita ancora amareggiano i nostri sguardi quando parliamo del boemo). Però quell'anno c'eravamo anche divertiti. Mi piaceva molto andare allo stadio con lui, erano le propaggini della bella relazione avuta quando ero piccolo, quando a settembre mi portava a mangiare la pizza o il gelato in Prati e mi parlava come se fossi un uomo. Un pomeriggio di sole di quasi primavera avevamo fatto tappa al bar di un suo amico al Flaminio per mangiare un tramezzino, poi avevamo passeggiato fino allo stadio per vedere i nostri asfaltare con quattro gol l'insidiosa Fiorentina di Malesani. Quel giorno Zeman non sbagliò nulla. La giornata perfetta.
Il disco perfetto fu If you're feeling sinister. Fu il primo che comprai dei Belle & Sebastian. Forse ne avevo letto su Musica!, forse neanche quello, soprattutto mi conquistò la fotografia rossa in copertina. Più che altro fu un rendez-vous duchampiano. Io non sapevo quasi nulla di loro, eppure sapevo che mi sarebbero piaciuti. Di più: sapevo che sarebbero entrati nella mia vita. Di più: sapevo che avrei trovato le mie giornate nelle loro canzoni. Per anni sono stati i miei mentori. Tante volte nella vita - per i viaggi, i dischi e le amicizie, non ultimi gli innamoramenti - mi sono fidato di questo istinto quasi animale, quasi esoterico; colto il dettaglio, il messaggio in codice, il quadro si sarebbe svelato. The stars of track and field fu una rivelazione. Allora era vero, un'altra musica era possibile; un'altra vita pure. Si poteva anche essere diversi dagli altri; ci si poteva limitare a sussurrare; come prima conseguenza decisi di non comprarmi le orride scarpe Oxs. Naif era la parola che mi girava per la testa. E pesce fuor d'acqua. Il pomeriggio, dopo le versioni, dopo il calcetto, dopo i troppi rovesci mandati in rete, invece di andare in qualche punto di ritrovo adolescenzial-pariolo, facevo partire lo stereo e, sdraiato sul letto, fingevo di essere un hipster di Glasgow (avrei letto quella parola solo qualche anno dopo, nelle note del libretto di Fold Your Hands Child, You Walk Like A Peasant), non mi vergognavo di accompagnare con la voce la melodia di fox in the snow, di pensare a una ragazza dell'altra sezione in termini di I will love you over e di sperare che qualcuno mi portasse via da quel quartiere di cretini perchè altrimenti sarei morto.

Said the hero in the story
"It is mightier than swords
I could kill you sure.

But I could only make you cry with these words"
Dissi basta alle sigarette fumate per finta al Gilda nel tentativo di impressionare chissà quale scema (primi sintomi di misoginia) e diedi fondo alla vita. Che poi uno pensa che vivere in un quartiere centrale di una grande città sia meglio di vivere in un paese abbandonato nell'entroterra ed invece a quattordici anni non c'è differenza, ci sono i dischi giusti, se li riesci a recuperare. Belle & Sebastian mi hanno accompagnato per tanti anni. Una volta andai anche a vederli con mio padre. Ci sedemmo sugli spalti del Centrale del Tennis. Lui non se la sentiva di stare in piedi. Questa cosa lì per lì mi dispiacque ma poi capii che aveva un senso. Seduta dietro di noi c'era Victoria Cabello con un misterioso amico. All'epoca - sarà stata una decina di anni fa - ero molto innamorato delle sue lentiggini. Provai a farglielo capire in tutti i modi ma non ci fu verso di comunicare. Non mi sono goduto per niente il concerto, però. Ora quasi quasi neanche so se esistono ancora, i Belle & Sebastian, eppure so che esisto io nelle loro vecchie canzoni.
Intabarrato nel loden blu che tanto mi rendeva felice mio padre mi lasciò sotto casa del mio amico dietro Ponte Milvio. Avevo comprato le crocchette al bar Euclide e le mangiammo nel tragitto a piedi. Anche lui sfoggiava un loden - verde però. Era la prima volta in curva e la prima volta allo stadio insieme a lui. Era la prima volta che parlavamo sul serio. Ci conoscevamo da una vita ma solo sulla carta; ci eravamo incontrati veramente solo qualche mese prima nella nuova scuola. Lui era due o tre mondi avanti a me e la soddisfazione di stare insieme quel giorno - di condividere quell'esperienza - era pari solo alla sorpresa di entrare nel mondo incantato degli scozzesi. L'Empoli aveva una difesa orribile e Balbo riuscì a sbagliare i gol più semplici. Ciò non diminuì il mio buon umore. Poi uno lo mise dentro e loro rimasero in dieci. A fine primo tempo conobbi due altri suoi amici che erano allo stadio con noi, uno ha da poco avuto un figlio che ha chiamato come me. Nel secondo tempo successe di tutto, anche che Cappellini ci fece paura con una doppietta spettacolare. Però entrò Omari Tetradze. Fu lui a risolvere la pratica con un guizzo inaspettato sulla fascia, concluso poi in rete da Balbo. "Tetradze, ti amo e ti ho sempre amato dai tempi del campionato russo", gridò il mio amico dopo il gol. Ero dove volevo essere. Qualche settimana dopo sempre lui organizzò una festa in giacca e cravatta al Fleming. Ci finii più per serendipity che per invito. Chiesi a mio padre di prestarmi un vestito; non volle. I pantaloni grigi ce li hai, al massimo ti presto una giacca sportiva, mi disse. E vada per la giacca sportiva. Una giacca a righe bianche e azzurre, coi bottoni d'oro. E che cazzo. Neanche il Grande Gatsby. Non avevo alternative e avevo troppa voglia di andare. Era dove dovevo essere. In ascensore mi ritrovai con due amici del tennis, più grandi, che mi chiesero se ero andato lì per fare il cameriere. Odiai mio padre ma in fondo sapevo che aveva ragione lui (però come entrai nell'appartemento mi tolsi la giacca e finsi di avere caldo tutta la sera). Oggi ne ho due di giacche così e non ho più paura di fare il dandy, anche in ufficio. Se If you're feeling sinister avesse avuto una traccia fantasma, probabilmente avrebbe parlato di me, della mia giacca a righe, delle ultime partite con mio padre, di imparare a essere quello che si è.

Judy, where did you go wrong?
You used to make me smile when I was down
Judy was a teenage rebel.

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Concorso "Coreografie cittadine" - da Un Cuore Grande Così il 12/09/2013 @ 10:12


SI PREGA DI DARE LA MASSIMA DIFFUSIONE!!!

COMUNICAZIONE IMPORTANTE RELATIVA AL CONCORSO DELLE "COREOGRAFIE CITTADINE":

Tutti coloro che vorranno partecipare e hanno un profilo facebook, dovranno iscriversi al gruppo di Un Cuore Grande Così al seguente link:

https://www.facebook.com/groups/genoa1893/

e poi postare le foto lì indicando la località dove sono state scattate.

Chi invece non è iscritto a facebook dovrà di inviare le foto allegandole ad una email indirizzata a:

info@uncuoregrandecosi.it

sempre ovviamente corredate da località e nome del partecipante.

GRAZIE!!!

Sotto, il manifestino redatto in occasione dell'evento creato dalle strutture Villa Basilea, Centro Diurno della Salute Mentale "Peschiere" e Villa degli Angeli

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Comunicato T.O. del Genoa CFC 1893 - da Un Cuore Grande Così il 11/09/2013 @ 18:57

"TUTTI AL PIO XII!!! Giovedi 12 settembre ore 16 la Tifoseria Organizzata invita tutti i Genoani al PIO XII per l'ultimo allenamento a porte aperte prima del derby!! Facciamo capire alla squadra quanto e' importante questa partita!! CARICA RAGAZZI, TUTTI UNITI!!! DISTRUGGIAMOLI!!!!!! Da 120 anni Genova ha solo due colori!!! Tifoseria Organizzata".

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Genoa Club Monover - da Un Cuore Grande Così il 10/09/2013 @ 17:10

Riceviamo da Emanuele (grazie!) dalla Spagna e volentieri pubblichiamo la fanzine scritta in valenziano (variante del catalano, diciamo che è la lingua che si parla per strada) del Genoa Club Monover fondato ufficialmente il 7 settembre 2013:

La fede dei nostri padri - La fe dels nostres pares.
Com explicar-li a un monovero què és el Genoa? I a més, com fer que un monovero s’apassione pel Genoa? Com juntar dues cultures que aparentment no han tingut cap contacte, i dos pobles que no es coneixen? Resposta no n’hi ha, deixem que parle la imatge...
Sir James Richardson Spensley.
Aquest gentleman és el home de la foto de la portada. Segurament a vosaltres esta imatge no vos diu res, encara que siga pareguda a una que vau trobar una volta en un caixó i que retrata al besavi de l’abuelo d’algún tio abuelo. “Este home es el nostre pare”, et respondrá sense pensar-ho qualsevol sagal de Genova. Encara que no figura entre els 10 firmantes del acta de fundació del Genoa, “o mego ingleise”(“el metge anglés”) com li deien a Genova, va ser una peça fonamental en els primers temps del football a Itàlia, perque va entendre abans que ningú que aquell era el esport del futur i que, tot i que la diferència amb els clubs anglesos era gran, existien condicions favorables per a que el nou joc triomfara també al Bel Paese. I així va ser!
I... què té que vore tot açó amb Monòver? Res, però crec que eixos homes de darrere están fent una gatxamiga (com sempre, uno treballant i quinze mirant), i la serra podria ser perfectament Beties. Y sobretot, si no n’hi ha cap contacte entre el Genoa i Monòver, algú haurá de començar, no? Pues Visca Monòver i Força Genoa, fotre!
El Genoa i Espanya.
Els contactes entre el Grifone i Espanya son pocs, pero importants. Aquí parlarem només de dos episodis que crec que mos agradarán a tots. El primer es la gran victoria de la selecció espanyola contra Brasil, en els vuitens de final de la Copa del Món de 1934. El 27 de maig, en l’estadi del Genoa (el Luigi Ferraris), davant de 21.000 espectadors, l’aleshores República Espanyola li n’endossava 3 a Brasil i volava a quarts. El resultat va ser 3 a 1, amb goals de Iraragorri i Lángara (2) pels espanyols i de Leonidas, el “diamante negro”, pels carioca. L’estrella del partit va ser, amb el permís del “divino” Zamora, el gran Isidro Lángara, jugador capaç de marcar 14 goals en 8 partits amb la samarreta de la selecció.
Aquest basc, tot força i coratge, va jugar també amb la selecció de Euskadi de 1937 i aixó, a més de la seua participació a la guerra pel bàndol republicà, li va ocasionar problemes que al final el van portar a emigrar a Méxic i a Argentina. Isidro Lángara encara és una llegenda de dos clubs: el Club Atlético San Lorenzo de Almagro de Buenos Aires i sobretot, el Real Oviedo, equip amb el que va marcar una barbaritat de goals, convertint-se en pichichi tres anys consecutius!
I precisament el club asturiá ens enllaça amb l’altra història que volia contar. L’ història de un equip, el Genoa, que després de 98 anys de existència arriba a jugar una copa europea i s’enfronta a un altre club gloriós pero amb poca sort, el Real Oviedo. L’anada es juga al Carlos Tartiere el 19 de setembre de 1991 i acaba amb avantatge pels asturians, que guanyen 1 a 0 gràcies al goal de Bango. Pero més que per football, el partit será recordat a Genova per l’èxode de tifosi del Genoa a Asturies. Setmil grifoni acompanyen l’equip rossoblú “in auto (cotxe), moto o treno” com diu el nostre himne.
La tornada, que el Genoa guanya per 3 a 1, es juga davant de 38.000 ànimes que exploten quan el davanter, Thomas Skuhravy, marca el gol decisiu de cap, fent una verónica digna de Manolete, en el minut 89, cuan molts (com jo) ja estaven plorant. El Genoa passava així a la segona ronda i acabaria la seua aventura europea caent en la semifinal, amb honor, contra l’Ajax. Però el crit de eixe goal a l’Oviedo, que es va sentir a quilòmetros de distància i es considera el més fort que haja eixit mai del mític Luigi Ferraris, s’ha gravat per sempre al cervell de tots els supporters rossoblù... i ¡olé!
7 de setembre 1893: naix el Genoa cricket and foot-ball club - 7 de setembre 2013: naix el Genoa CLub Monover.
“Me llena de orgullo y satisfacción”... no val, no?
Quan deu homes de la comunitat anglesa de Genova, entre ells el cònsol de la Reina Victoria, van decidir fundar un club esportiu el 7 de setembre de 1893, no podien imaginar que, 120 anys després, eixe club tindria tanta importància en la vida de tantes persones i en tants “puestos”. Amb la esperança de poder compartir amb vosaltres la nostra passió i de poder apropar un poc el Genoa i Genova a “Munove”, inaugurem amb inmensa alegria el Genoa Club Monòver! Alè Zena!
Les cites del mes
diumenge 1, 20.45 h: Genoa-Fiorentina
dissabte 7, 22.30 h: inauguració club
diumenge 15, 20.45 h: DERBY!
dissabte 21, 20.45 h: Genoa-Livorno
dimarts 24, 20.45 h: Udinese-Genoa
dissabte 28, 18.00 h: Genoa-Napoli
Cultura zeneize.
Vâ ciù un zenéize inte ‘n dîo che ‘n foestê câsòu e vestîo.
Té més valor un genovés en un dit que un foraster calçat i vestit.

Sotto, una pagina che descrive il Luigi Ferraris a fine anni '30

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Barriere - da Un Cuore Grande Così il 08/09/2013 @ 15:25

Dal re del cachemire primo stadio-giardino, niente barriere ma solo siepi e fiori (da: repubblica.it). A Castel Rigone, frazione di 500 abitanti in provincia di Perugia, nasce il primo impianto sportivo che non prevede nessun tipo di barriera. Solo verde a separare i tifosi dai giocatori. A idearlo è stato Brunello Cucinelli, imprenditore e presidente della società umbra che milita in seconda divisione di Lega Pro.
CASTEL RIGONE - Un nuovo modo di pensare e vivere uno stadio di calcio, guardando all'etica e al rispetto. A Castel Rigone, piccolo borgo medioevale di 500 abitanti nei pressi del Trasimeno, l'impianto sportivo è stato infatti realizzato senza barriere né alcun tipo di recinzione. Sconfinate siepi di alloro e cipressi a dividere la gioia dei tifosi dall'agonismo dei ventidue in campo. L'idea è nata dalla lungimiranza dell'imprenditore Brunello Cucinelli, il re del cachemire italiano, che del Castel Rigone (club militante nella seconda divisione di Lega Pro) è il presidente. Il San Bartolomeo (questo il nome dello stadio) è stato attrezzato per la Lega Pro grazie al contributo decisivo del personale della Questura di Perugia e nella giornata di oggi ha avuto, per la prima volta, il piacere di ospitare ufficialmente una partita di calcio. Il Castel Rigone ha sfidato il Martina Franca in un match con poche emozioni, terminato a reti inviolate.
Tra gli spettatori presenti anche il direttore della Lega Pro, Francesco Ghirelli, che ha vantato l'iniziativa della società umbra: "E' un club allocato in un piccolo borgo medioevale, diretto da un imprenditore che opera nel campo della moda e che onora l'Italia nel mondo. I vertici del club hanno messo come fondamento del calcio, il rispetto che ha come base la cultura di chi non si arrende di fronte alla ignoranza e alla violenza, non si gira dall'altra parte, non consente ad una minoranza di contraddistinguere e marchiare negativamente una tifoseria, un club, una città. Da un luogo che conta 500 abitanti arriva un segnale immenso, potente e con una classe di grande valore. Un segnale concreto sono anche le famiglie presenti allo stadio, con mamme e tanti bambini. Questo agire - ha concluso Ghirelli - rende la Lega Pro quella che intende essere, la Lega della storia dei Comuni d'Italia, capace di aderire al meglio delle tradizioni sportive, civili e morali, attenta alle esigenze delle famiglie e dei tanti tifosi".

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Ecco! - da Un Cuore Grande Così il 07/09/2013 @ 15:55

Dal profilo facebook di Roberto Scotto, in riferimento alla vicenda di Matteo:
"Dopo aver restituito fino all'ultimo euro a chi aveva fatto una donazione, con i soldi dei cappellini e della colletta allo Stadio che erano restati (13.000 euro) ieri sera li abbiamo donati alla famiglia di Sergio, grande Genoano che dopo il crollo della Torre Piloti ha lasciato una moglie e una bambina piccola. Perche noi ci sentiamo una grande famiglia! Roby".

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Barriere - da Un Cuore Grande Così il 07/09/2013 @ 09:07

Ci scrive l'amico Giuseppe Zolezzi:
"Ciao UCGC, come sempre, deciderai tu se pubblicarlo sul sito o meno. Volevo segnalare una situazione assurda cui ho assistito domenica per Genoa-Fiorentina all'ingresso della zona di pre-filtraggio fuori dalla Nord dove sono state installate le bellissime e nuovissime cancellate fisse... peccato solo non abbiano previsto che esistono persone in carrozzina che vogliono entrare allo stadio. Dopo qualche minuto di protesta e crescente nervosismo, e' stato aperto un altro varco per un ragazzo... ovviamente sopra un marciapiede inaccessibile dai 2 lati... per fortuna però sapeva guidare bene il suo mezzo e quindi è riuscito a passare tra il bordo del marciapiede e le piante, piene di sterpaglie, poste al centro. Proprio bello il calcio moderno. Ciao".

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Balla c'è! - da Un Cuore Grande Così il 04/09/2013 @ 08:11

...con Ballardini (da: tuttomercatoweb.com) "Genoa, con me una salvezza miracolosa. Non posso giudicare Liverani, ritorno in rossoblù? Legato alla piazza e alla società. Palermo, Hernandez dimostri di essere capace"

In attesa di tornare in pista Davide Ballardini fa le carte al campionato. L'ex allenatore del Genoa attende una chiamata. E se gli ricordi i trascorsi rossoblù ti risponde che la salvezza del Grifone "è stata quasi miracolosa, con i ragazzi c'è grande sintonia". Ma non è bastato per proseguire il rapporto con Preziosi.

Sulla panchina del Genoa ora c'è un suo ex giocatore, Liverani.
"L'anno scorso il Genoa ha ottenuto una salvezza quasi miracolosa. Voglio parlare del legame che c'è tra noi - me e il mio statf - e i giocatori dell'anno scorso, verso i quali nutro grande stima. La squadra era in difficoltà, ma ci siamo salvati. Preferisco ricordare l'affetto verso i ragazzi del Genoa. Quando siamo arrivati io e il mio staff, il Genoa come punteggio fatto sul campo era ultimo. Alla fine ci siamo salvati, facendo una grande impresa. Sono legato ai giocatori con cui abbiamo ottenuto la salvezza, alla società, ai tifosi e all'ex direttore sportivo Rino Foschi".

Non ha risposto su Liverani...
"Non ho strumenti per poterlo giudicare come persona e come tecnico.
Non è possibile commentare il suo lavoro perché siamo solo all'inizio. E come persona lo conosco poco".

Legato alla piazza e alla società: e se Preziosi la richiamasse?
"Penso che al momento l'argomento non sia stato neppure affrontato.
Agli allenatori che hanno cominciato con le rispettive squadre sono stati concessi dei mesi per preparare bene le squadre, fare tante sedute di allenamento e magari messo voce sugli acquisti e le cessioni. È giusto dargli tempo. Per quanto riguarda me, sono in attesa di una chiamata. Non credo di essere più bravo o meno bravo degli altri, semplicemente mi piacerebbe ritornare a lavorare"

Il Genoa e gli obiettivi mancati: Abel Hernandez.
"Abel è un giocatore con grandi qualità. Ma è ora che dimostri di essere così bravo come si dice. Gli auguro di stare bene, deve dimostrare che è capace. Ma il Genoa ha già una rosa competitiva, anche senza Hernandez. Hai Gilardino, avevi Floro Flores e ora hai preso Calaiò che è un buon giocatore. Nessun problema in avanti".

Riflessione di fine mercato: a chi l'oscar?
"Direi che Inter, Milan, Juventus, Napoli, Roma e Fiorentina si sono mosse ognuno a modo suo in maniera positiva. Oggi si opera con parsimonia, sensibilità e competenza. Giusto dare un occhio ai bilanci".

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Comunicato T.O. del Genoa CFC 1893 - da Un Cuore Grande Così il 03/09/2013 @ 22:53

La TIFOSERIA ORGANIZZATA del Genoa 1893 in questi anni ha sempre dimostrato con parole ed azioni che il suo unico pensiero fosse il bene del Genoa, contro tutto e tutti. Ora, a qualche giorno dal nostro 120° compleanno, pensiamo che questa sia cosa giusta da festeggiare; al di là del momento e dei risultati siamo sempre il primo Club d'Italia, i pionieri del calcio, quelli che non hanno seguito strade, ma tracciato sentieri nuovi, il Club con più record o con record irraggiungibili (come essere la prima squadra a giocare in Sudamerica arrivandoci con il piroscafo) e questo Antico Club è stato tenuto i piedi dalla fede di centinaia di migliaia di tifosi che dal 1893 si sono dati il cambio sugli spalti del "Luigi Ferraris", di generazione in generazione, padri e madri che tramandano ai loro figli la fede nel Grifone, che a loro volta lo faranno con i loro figli, perché Genoani si nasce!

Ed essere Genoani è un po' come tornare bambini nella casa dei nonni; si può salire in soffitta e scoprire il pallone di cuoio con i lacci, si possono aprire vecchi bauli dove spuntano le gloriose maglie di Spensley di De Prà di Catto e Santamaria, di Verdeal, o di Abbadie. Guardando bene negli antichi scaffali, si trovano i resoconti di partite storiche, di vittorie e di sconfitte, i racconti di quelle persone che hanno fatto la Storia di questo Club; ognuno di loro è lì nella vecchia immensa soffitta piena di polvere che possiede solo chi ha una lunga storia e a noi, come bambini, fa sognare il pensiero di appartenere a questa leggenda, di chiudere gli occhi e vedere, mister Garbutt che discute di calcio con il Prof. Scoglio, di vederli circondati dai loro ragazzi che li hanno raggiunti qui nell'immensa soffitta che è la nostra storia.

E lì ad uno ad uno rivediamo i nostri fratelli che ora animano la grande Nord del Cielo, un'immensa gradinata con migliaia e migliaia di teste vocianti che scuotono il cielo e ci fanno venire i brividi, e noi come bambini rivediamo sventolare le mille bandiere che sono passate in 120 anni, tutte insieme, in un tripudio di cori e colori che solo la Nord può offrire.
E pensiamo che per tutto questo sia giusto al di là dei risultati e delle situazioni, fermarsi due giorni a festeggiare il compleanno del nostro amore, una festa che i tifosi del Genoa meritano, perché se la fiammella della speranza è ancora accesa, lo si deve in larga parte a noi; quindi invitiamo tutti a partecipare alla festa sia venerdì che sabato, perché la festa è nostra, perché i tifosi Genoani meritano rispetto.

Il nostro desiderio è che siano due giorni di festa, per i bambini, i grandi, le famiglie, per tutti; un modo di prepararsi al Derby e caricare noi e la squadra. Vogliamo che sia una festa e invitiamo tutti a far in modo che lo sia! Rimandiamo a dopo il derby una più attenta disamina sul lavoro svolto dalla società alla luce dei fatti, ma in questi due giorni vogliamo solo festeggiare il nostro Genoa! Vi aspettiamo tutti al Palasport della Fiera, intanto vi invitiamo da qui a domenica ad imbandierare finestre e balconi con i nostri colori, perché anche solo mettendo una bandiera si proclama al mondo la nostra fede... E chi ci vuole male resti pure in attesa, il Popolo Genoano non conosce resa!

La TIFOSERIA ORGANIZZATA del C.F.C GENOA 1893

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